Il ruolo e la funzione pubblica
Toghe e uso dei social, la necessità di un intervento del Csm
Il consigliere laico Ernesto Carbone ha chiesto di affrontare definitivamente la questione: “Fare chiarezza sul tema dell’utilizzo che i magistrati possono farne e garantire uniformità”

Social e toghe atto secondo. Dopo il tentativo miseramente naufragato dell’allora componente laico del Consiglio superiore della magistratura Pierantonio Zanettin di ‘regolamentare’ l’uso dei social da parte dei pm, ecco scendere in campo Ernesto Carbone, attuale membro dell’organo di autogoverno delle toghe in quota Italia viva. Con una nota indirizzata ieri al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, Carbone ha chiesto infatti di “deliberare l’apertura di una pratica finalizzata alla discussione e alla definizione di criteri guida per la comunicazione ‘social’ dei magistrati”.
Il motivo dell’istanza è sempre lo stesso: “Fare chiarezza sul tema dell’utilizzo che i magistrati possono fare dei social, al fine di garantire uniformità e parità di trattamento fra essi, relativamente al diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni”. In particolare, per Carbone, serve fare chiarezza una volta per tutte sulla natura stessa dei social, “se strumenti per l’espressione della vita privata o pubblica dei magistrati”.
Come detto, il tema non è affatto nuovo, trascinandosi stancamente da anni. Nel 2017, dopo l’ennesima esternazione di un magistrato sul proprio profilo Facebook, Zanettin, ora capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, decise che era giunto il momento di aprire una pratica per individuare delle ‘linee guida’ volte a garantire che la comunicazione sui social da parte dei magistrati avvenisse nel rispetto dei principi deontologici e con forme e modalità tali da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione.
In quei mesi le cronache erano piene di magistrati scatenati su Fb. È stato spesso citato il caso del pm di Trani Marco Ruggiero che – dopo essersi presentato in aula con la cravatta tricolore – aveva esternato il proprio disappunto per essere stato lasciato solo dallo Stato nel processo sulle agenzie di rating, finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il post, ripreso poi dal Blog delle stelle di Beppe Grillo, aveva ricevuto centinaia di migliaia di condivisioni. Altro post virale era stato quello del presidente del Tribunale di Bologna Francesco Caruso che aveva paragonato coloro che votarono Si al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi agli aderenti alla Repubblica di Salò.
Per Zanettin era quindi necessario da parte del Csm un “solenne intervento” per richiamare i magistrati a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatezza nell’uso dei social network e piattaforme digitali in genere, nel rispetto della libertà di pensiero. Il Csm, però, dimostrando scarsa attenzione nei confronti di tutto ciò che mette in discussione il prestigio delle toghe agli occhi dei cittadini, invece del “solenne intervento”, aveva deciso nel 2022, dopo cinque anni, di archiviare direttamente la pratica perché l’argomento non sarebbe stato di sua competenza.
“Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidata in questi anni, il Csm ha preferito nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, era stato il laconico commento di Zanettin. Ricordando che “il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenienti che possano comprometterne la terzietà ed imparzialità e che non possono essere giustificati con la libertà di pensiero”. Dello stesso tenore Antonio Leone, anch’egli ex componente laico del Csm ed ora presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, da sempre duro nei confronti di chi ritiene che ogni esternazione social vada comunque giustificata con la “libertà di pensiero”.
“Chi prende a cuore la difesa di questi magistrati che si lasciando andare a commenti su Fb pensa che essi siano come il dottor Jekyll ed il signor Hyde: sui social posso dire tutto ed il suo contrario, invece quando scrivono le sentenze lo fanno in ossequio la legge ed in piena autonomia ed indipendenza”, aveva affermato Leone, sentito sul punto dal Riformista. “Se un giudice usa i social per criticare o condividere questo o quel politico o le posizioni di questo o quel partito, può scrivere le sentenze più belle del mondo o fare le inchieste più azzeccate, ma presterà sempre il fianco a chi mette in dubbio le sue decisioni”, era stato, invece, il commento di Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione.
Recentemente il tema è tornato d’attualità con Iolanda Apostolico, la giudice del tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento di tre tunisini sconfessando il decreto del governo e che sul proprio profilo Fb condivideva post offensivi contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a favore delle Ong e del Partito democratico. “Da sempre pensiamo che un magistrato debba parlare solo attraverso i suoi provvedimenti e proprio per questo chiediamo che la critica muova dal loro contenuto, sulla base di un confronto intellettualmente onesto, basato sul rifiuto del metodo dell’argumentum ad hominem”, era stata la risposta delle toghe di Magistratura indipendente. “Non dimentichiamo – avevano aggiunto le toghe di destra – che il magistrato deve sia essere che apparire indipendente dalla politica e siamo disponibili a interrogarci su come questo dovere debba essere declinato nell’era dei social network, ma ci opponiamo alla critica dei provvedimenti basata su slogan o sul processo alle intenzioni di chi li emette, perché crea una dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche, che rischia di lasciare i cittadini disorientati e di compromettere la loro fiducia nelle istituzioni”. Sarà questa la volta buona?
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