La guerra commerciale Usa-Cina potrebbe prendere una piega peggiore se diventasse anche valutaria. Non è una novità l’intenzione di Trump di svalutare il dollaro. A suo dire, il meccanismo aiuterebbe l’export. Al netto, però, della necessità a monte che l’industria americana torni a produrre ciò che ha smesso di esportare da decenni. Il problema è se anche la Cina dovesse imboccare la strada di una politica monetaria più flessibile. Di un indebolimento controllato dello yuan se ne parla da qualche mese. Indipendentemente dai dazi-bomba sganciati da Washington. Quest’anno la People Bank of China ha sostenuto il valore dello yuan onshore (Cny) fissando il tasso di riferimento giornaliero a 7,20 sul dollaro. A fine 2024 Ubs stimava che si sarebbe arrivati a 7,5 entro il primo semestre di quest’anno. Finora le mosse di Pechino sono state di natura finanziaria. Rivitalizzare i consumi interni e attrarre nuovi investimenti dopo che l’industria domestica ha vissuto sulle montagne russe per tutto il 2024. Oggi la guerra dei dazi aggrega la finanza e la politica internazionale. Il che complica le cose. Perché Pechino, nella seconda sfera, si muove con fare molto più ideologico che pragmatico.

L’avvertimento

«I dazi sono la bomba atomica del commercio mondiale», osserva Fedele De Novellis, economista del think tank REF Ricerche. «D’altra parte, una risposta di questa portata per la Cina è inevitabile». Dopo il reciproco gioco al rialzo dei dazi Usa al 145% sul Made in China, contro quelli al 125%, da parte di Pechino, sull’import americano, la settimana si è chiusa con le ultime dichiarazioni di Trump. «Stiamo andando bene», ha scritto su Truth. «La nostra politica sui dazi è molto entusiasmante per l’America e per il mondo», e riaperta con l’avvertimento: «Nessuno si salva dai dazi americani».

Contestualmente, la Cnn ha parlato di uno scambio diplomatico in corso. Washington avrebbe esortato Pechino per un colloquio al vertice. Se Xi Jinping e Trump dovessero incontrarsi, sarebbe la conferma che tutto il resto non conta. Né l’Europa, che tiene aperta l’opzione dei negoziati, né Putin, che, con i colloqui in Arabia Saudita sulla non avvenuta tregua in Ucraina, si era illuso di poter tornare ai fasti dell’Urss, quando erano Washington e Mosca a scrivere i destini del mondo. No, al posto della seconda c’è Pechino.

«E quest’ultima cos’altro può fare?», si domanda De Novellis con le percentuali dei dazi alla mano. L’ipotesi di una svalutazione, se davvero fosse presa, sarebbe un cambiamento di vision dopo 14 anni di misure restrittive. E metterebbe la parola fine a quell’ambizione di fare del renminbi (lo yuan offshore) una valuta internazionale, in grado di rivaleggiare con il dollaro statunitense. Se ne era parlato soprattutto nel periodo subito successivo allo scoppio della guerra in Ucraina, quando alcuni osservatori dall’impostazione mentale anti-occidentale avevano messo sullo stesso piano le manovre militari di Putin con le mire espansionistiche cinesi. Progetto abortito in breve per ovvi motivi. Lo scontro dollaro- renminbi sarebbe stato impari. Basti pensare che quasi il 60% delle riserve valutarie globali detenute dalle banche centrali (12,3 trilioni di dollari) è denominato in dollari Usa. Contro il 2,1% di renminbi. In valori assoluti si sta parlando di 7,25 trilioni di bigliettoni e del corrispondente di 258 miliardi di dollari, ma in valuta cinese. Un confronto impossibile, motivato anche dalla differenza strutturale delle due economie e dalla credibilità dello Stato di diritto degli Usa contro la nota mancanza di trasparenza del regime cinese. Tutto questo prima che arrivasse Trump, s’intende. Oggi questi distinguo appaiono più fluidi. Detto questo, se Pechino svaluta, addio riposizionamento della sua moneta contro il dollaro.

«C’è anche un’altra incognita», aggiunge De Novellis. «Se il dollaro si indebolisce e addirittura lo yuan si indebolisce rispetto al dollaro, noi che fine facciamo?». Qui sta l’analogia drammatica con la Guerra Fredda. La minaccia commerciale di oggi è pari alla deterrenza nucleare di allora. «Il cambio ammezzerebbe le nostre esportazioni». Nostre europee, ma anche quelle dei Brics, che – pur restando vicini a Pechino – si troverebbero coinvolti in un duello bipolare, in cui le vittime collaterali sarebbero di portata globale. Uno scenario ben più evidente nell’economia reale. Con gli scambi che si fermano, le navi che non salpano e le merci che non arrivano. «Ma se crolla il commercio mondiale, anche l’America crolla. Lo si è già visto con la crisi dei chip lo scorso anno. Alle imprese, alla Tesla, giusto per fare nomi e cognomi, servono i bulloni. C’è un assoluto bisogno di beni intermedi che, se non arrivano, si interrompono tutte le produzioni».