Le bandiere nere dello Stato islamico sembrano un ricordo sepolto nel tempo. Quell’orda nera che ha sconvolto l’Iraq e la Siria – e che poi si è allargata con le sue costole in altre parti del mondo dall’Afghanistan all’Africa – è come scomparsa dalla scena mondiale, soggiogata dai suoi nemici ma anche da una sorta di implosione.
Eppure, nonostante la sua graduale eliminazione, in queste settimane le notizie dalla Siria sembrano suggerire un nuovo ruggito del cosiddetto Daesh. O forse un suo ultimo colpo di coda.
La morte del leader
I primi giorni di agosto, l’Isis ha confermato attraverso i suoi canali la morte di Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi. Il leader dell’organizzazione, secondo quanto detto dallo stesso Isis, sarebbe stato ucciso in uno scontro a fuoco contro un’altra sigla jihadista nella provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria. La notizia era stata data in realtà da Recep Tayyip Erdogan ad aprile, ma con una versione completamente diversa. In quell’occasione, infatti, il presidente turco aveva detto che il quarto “califfo” era stato “neutralizzato” – termine utilizzato dai funzionari di Ankara quando parlano delle operazioni antiterrorismo – dall’intelligence anatolica in una fattoria abbandonata nei pressi di Jindires, sempre nel nord della Siria. Tra le due versioni la differenza è notevole.
Per i terroristi, la morte del califfo è il frutto di una guerra tutta interna alle sigle jihadiste e da attribuire a una delle milizie rivali più potenti e di matrice qaedista della Siria: Hayat Tahrir al-Sham.
Per Erdogan, invece, si tratta di uno dei risultati della campagna contro il terrorismo che Ankara continua a realizzare al confine tra Turchia, Siria e Iraq. Una campagna che per il governo del Sultano riguarda non solo le formazioni islamiste, ma anche le organizzazioni dei combattenti curdi. Il fatto che l’Isis abbia però voluto parlare ufficialmente della morte del califfo per mano di una formazione vicina ad Al Qaeda, e che soprattutto abbia subito nominato un successore, Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi, indica non solo che il gruppo non è definitivamente scomparso, ma anche che la sfida con altri gruppi è ancora attiva. La morte del califfo e la nomina del quarto erede di Abu Bakr al Baghdadi si accompagnano infatti a una recente serie di attacchi che ha sconvolto la Siria e che sembra far tornare l’orologio della storia indietro di alcuni anni.
I due attacchi Isis
L’Osservatorio siriano per i diritti umani, la famosa (e da taluni criticata) organizzazione non governativa con sede nel Regno Unito che forniva informazioni sul conflitto siriano, ha dato notizia di due attacchi dell’Isis in pochi giorni. Uno che ha provocato la morte di sei uomini delle forze siriane nel nord-ovest del Paese. Un altro avvenuto lunedì a Raqqa, un tempo capitale del sedicente Stato islamico, dove sono morti dieci militari e dove sono rimasti feriti altri sei. Nulla di paragonabile all’onda d’urto del primo Califfato che sconvolse il Medio Oriente: l’ultimo comunicato di Centcom, il comando Usa che si occupa della regione, parla di 31 operazioni nel mese di luglio che hanno provocato la morte di cinque membri dell’Isis e dell’arresto di altri 30.
Numeri di gran lunga inferiori a quelli dei precedenti anni di guerra, ma che tuttavia rispecchiano anche la resistenza dello Stato islamico in alcune roccaforti di Siria e Iraq. Sul punto, gli analisti concordano che il Califfato, per svariate ragioni economiche, sociali e politiche, sia impossibile da resuscitare. Ma osservatori e funzionari Usa tendono a non abbassare la guardia. Le carceri siriane e irachene sono piene di combattenti tutt’altro che deradicalizzati. Inoltre, il caos in altre parti del mondo, dal dimenticato Afghanistan fino ad alcuni Paesi africani, potrebbe condurre a una recrudescenza del fenomeno jihadista, sorretto da sigle che da anni seminano il terrore in alcune aree del Sahel, del Mozambico o del Corno d’Africa. L’Isis sembra sempre più l’ombra di sé stesso. Ma è un’ombra che non va dimenticata.