Il can can suscitato dalla decisione della commissione Contenziosa del Senato (in primo grado di giudizio) è disgustoso e stanno intingendo la penna nel veleno un po’ tutti, anche chi dovrebbe tenere ben fermi i capisaldi di uno Stato di diritto. Il provvedimento fu assunto dal Senato, nel 2018, a imitazione di quanto aveva deliberato l’Ufficio di Presidenza della Camera (Delibera Fico), avvalendosi del principio di autodichia, ovvero della prerogative concesse agli organi di rango costituzionale di deliberare in autonomia dispositiva e giurisdizionale. L’autodichia, tuttavia, non può diventare arbitrio; anche questo potere è sottoposto a quanto dispone il comma 1 dell’articolo 25 della Costituzione: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge».

E quindi – essendo previsti due gradi di giurisdizione interna – chi si ritiene leso in un diritto soggettivo o in un interesse legittimo può promuovere il ricorso “al giudice naturale precostituito per legge”. Tanto più che le Camere avevano persino accantonato nei bilanci un fondo per il caso in cui i provvedimenti gemelli dovessero essere cassati e gli importi dei tagli restituiti. «A pronunciarsi dovranno essere i giudici; anzi diverse istanze di giudizio fino alla Consulta. Così – sostenne Sabino Cassese – «chi ha cavalcato il giustizialismo finirà per passare i propri giorni con i giudici in casa. È quello che capita a chi eccede nell’esercizio dei propri poteri».

È per altro dubbio che il Parlamento possa decidere in autodichia nei confronti di persone, comprese i loro superstiti, che ora sono dei cittadini come gli altri, visto che chi ha rappresentato la Nazione in Parlamento non appartiene in aeternum a un ordine sacerdotale. Ciò premesso è da miserabili iene mettere in relazione una sentenza che rende in parte giustizia per una lesione di diritti (i ricorrenti due anni or sono non potevano immaginare che vi sarebbe stata una pandemia al momento della tardiva decisione della Commissione Contenzioso). Grazie al Coronavirus per fare giustizia si deve dare ragione a chi ha torto? Poi chi ha letto il dispositivo – e ha almeno un’infarinatura giuridica – non può non cogliere che la sentenza prende di mira, soprattutto, i criteri con cui l’operazione ricalcolo fu realizzata: criteri del tutto cervellotici e astratti, che, nei fatti, sono in vigore attualmente per qualche centinaio di ex parlamentari e per nessun altro cittadino italiano.

Vediamo i punti cruciali del dispositivo che accoglie parzialmente i ricorsi esaminati e per l’effetto annulla le disposizioni della deliberazione del Consiglio di Presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 16 ottobre 2018 nella parte:
-in cui prevedono il ricalcolo dell’ammontare degli importi mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di decorrenza dell’entrata in vigore della deliberazione n. 6 del 2018;
-in cui prevedono dei coefficienti di trasformazione che determinano sensibili riduzioni, con incidenza sulla qualità della vita, degli importi di minore entità, senza alcun effetto su quelli di importo massimo;

Prima di procedere oltre occorre fare un passo indietro. Come funziona il calcolo contributivo? Per ogni anno di servizio – con applicazione di questo regime – viene accreditato al lavoratore una quota pari al 33% della retribuzione, rivalutata secondo il Pil, che al momento della pensione diventa il cosiddetto montante contributivo da moltiplicare per un coefficiente ragguagliato (e quindi periodicamente aggiornati ai nuovi dati) all’attesa di vita. Più cresce l’attesa di vita più il coefficiente si riduce e più conviene uscire dal lavoro più tardi. Questo regime che agli italiani si applica, in tutto o in parte, a partire dal 1996 (esteso a tutti compresi i parlamentari, pro rata, dal 1° gennaio 2012) per i vitalizi percepiti dagli ex (su di loro si sono usate le più cocenti offese) è scattato un ricalcolo retroattivo. Cosa è successo, allora?

In primo luogo la determinazione del montante contributivo usato per ricalcolare i vitalizi era del tutto virtuale: un’astrazione, un algoritmo, una formula studiata a tavolino su dati inventati. E non poteva che essere così quando, con l’ambizione della retroattività, si vuole far esistere ciò che non esiste ovvero l’ammontare dei contributi versati, dal momento che le amministrazioni delle Camere – in regime di vitalizio – si limitavano a riscuotere la quota contributiva a carico del parlamentare e ad erogare il vitalizio alla maturazione dei requisiti previsti, senza dover versare la quota spettante al “datore di lavoro”. Era la stessa regola che fino al 1996 è valsa per i dipendenti statali. Il meccanismo di calcolo, quindi, è surrettizio, non corrisponde a nulla. Lo stesso discorso vale per il coefficiente di trasformazione. Cosa afferma la Commissione? «Si è assunto il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di decorrenza dell’entrata in vigore della deliberazione n. 6 del 2018».

In pratica si è definito – sempre a tavolino – un moltiplicatore “ora per allora”. Si tenga presente che i coefficienti applicati a tutti gli italiani vanno dai 57 ai 70 anni in senso crescente. Ma tra gli ex senatori (come tra gli ex deputati) ci poteva essere qualcuno che ha cessato il mandato poco più che quarantenne (quando non c’era un minimo di età come ora) e magari oggi è prossimo agli 80 anni. In questo caso nella delibera si è inventato un moltiplicatore ragguagliato all’età in cui l’ex parlamentare ha cominciato a riscuotere il vitalizio apportando, così come è scritto nel secondo alinea – “sensibili decurtazioni incidenti sulla qualità della vita”.

Quando, poi, si è voluto applicare il ricalcolo alle cosiddette pensioni d’oro il legislatore ha dovuto rinunciare a mettere in piedi una baracca costruita sul vuoto e si è rifugiato in un pesante contributo di solidarietà per la durata di cinque anni (prima o poi la Consulta dovrà pronunciarsi anche sulla legittimità di questa misura). C’è un altro aspetto vergognoso in questo dibattito. Si guarda alla composizione politica dell’organo che ha deciso e a quello che deciderà in secondo grado.

Questi “giudici”, appartenenti a gruppi parlamentari (alcuni sono membri esterni e al Senato il loro voto è stato determinante – il che è significativo – per bocciare parzialmente la deliberazione n.6/2018 dovrebbero garantire un’opinione conforme a quanto stabilisce il loro partito. Poi ci lamentiamo di Luca Palamara?