Il caso del carcere casertano
Torture in carcere, si va verso il processo tra omertà e polemiche
C’è la data dell’udienza preliminare: 15 dicembre. E ci sono i numeri di un processo che si annuncia lungo e complesso. Per mole di atti, per numero di imputati e parti lese, per quantità di silenzi complici o indifferenti, per numero di persone ancora da identificare. Ci sono ancora frammenti da ricostruire per definire quel che accadde il 6 aprile 2020 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere.
La notizia della richiesta di rinvio a giudizio firmata dalla Procura sammaritana all’indirizzo di 108 fra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria ha messo una virgola, non un punto. Il 15 dicembre si celebrerà l’udienza preliminare, primo giro di boa dell’inchiesta sui pestaggi e le umiliazioni, i calci e le botte scatenate contro un centinaio di detenuti, i reclusi del reparto Nilo, che andavano puniti perché la sera prima, in pochi, osarono alzare la voce e qualche materasso dalle brande per chiedere tamponi e mascherine temendo la pandemia Covid. Tortura e lesioni sono tra i principali capi di imputazione che saranno al vaglio del giudice dell’udienza preliminare il mese prossimo. Ci sono poi, a vario titolo, i reati di abuso di autorità, depistaggio, falso in atto pubblico.
Per dodici c’è anche l’accusa di omicidio colposo di Lamine Hakimi, l’algerino di 28 anni che morì un mese dopo il pestaggio, da solo in una cella. facendo un rapido conto si preannuncia un processo dai grandi numeri, il primo maxi processo sulle torture in un carcere: più di cento imputati, altrettanti parti lese, e poi testimoni. Si arriverà a una sentenza nei termini? Toccherà seguire un ritmo serrato. Intanto la Procura di Santa Maria Capua Vetere non si ferma. Il 26 novembre prossimo, davanti al Tribunale del Riesame di Napoli, i pm torneranno a chiedere la misura cautelare o una misura più severa per i 45 fra agenti e funzionari sotto accusa “graziati” dal gip. Sono 15 richieste di misure in carcere e 30 ai domiciliari. Nell’elenco dei possibili destinatari ci sono comandanti della penitenziaria che guidarono la spedizione all’interno del carcere e l’ex provveditore regionale Antonio Fullone, raggiunto a giugno dalla misura interdittiva della sospensione dall’incarico per sei mesi.
C’è poi ancora in corso il filone per individuare nomi e volti degli agenti ripresi dalle telecamere di sorveglianza durante la mattanza ma ancora sconosciuti agli inquirenti (sarebbero un centinaio, se non di più). «Ci sono stati troppi silenzi complici ai vertici alti. Penso alla politica, al Dipartimento, al Ministero della Giustizia: come facevano a non sapere?» tuona Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, tra i primi a raccogliere le drammatiche testimonianze dei detenuti picchiati ad aprile 2020 e a sottoporle alla Procura. «Contro di me – racconta – c’è stata una virulenta campagna di delegittimazione. Ancora mi indigna il fatto che dei 375 agenti entrati nel carcere quel giorno, soltanto uno si frappose tra i colleghi e i detenuti. Per non parlare del numero delle richieste di rinvio a giudizio: molto limitato».
Molti agenti avevano il volto coperto dal casco. «Perché non mettiamo i numeri identificativi sui caschi? – propone il garante – Così se si consuma un reato gli inquirenti sanno chi è responsabile. Abbiamo visto consumare un reato, una tortura e non riusciamo a risalire all’autore?». I sindacati della polizia penitenziaria difendono il corpo e i tanti colleghi: «Chi ha sbagliato paghi ma tutto quello che si è detto su questi poliziotti è esagerato», sostiene il Sippe. Eppure, le scene dei pestaggi sono state immortalate dai video delle telecamere interne al carcere. L’Uspp punta invece l’attenzione sulla «fragilità del sistema penitenziario nella gestione delle criticità che giornalmente si verificano nelle strutture carcerarie» e chiede body cam in dotazione al personale penitenziario e «modifiche al modello custodiale aperto».
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