Quello che i magistrati stanno facendo al presidente della Regione Liguria mostra che siamo un passo oltre la repubblica giudiziaria: siamo in un regime di tipo talebano in cui le toghe hanno la pretesa di dirigere il traffico, superando la divisione dei poteri. Non si limitano ad applicare le leggi, vogliono anche scriverle e poi bocciare, magari aizzando le piazze, quelle che non piacciono loro, magari come la riforma Nordio. E si permettono di trattare come un pupazzo senz’anima una persona che i cittadini liguri hanno voluto per ben due volte alla guida della loro Regione. Ma loro non lo liberano. Lo tengono prigioniero senza alcun ragionevole motivo. Addirittura lo sfottono. Perché, secondo i giudici, Giovanni Toti non sarebbe neppure in grado di distinguere il lecito dall’illecito e avrebbe bisogno di loro, delle toghe, per capire che cosa è il Bene, cioè loro, e che cosa è il Male, cioè la politica.

L’ergastolo cautelare

Non si era ancora asciugato l’inchiostro della riforma sulla giustizia vergata dal ministro Nordio e approvata dal Parlamento, che molto ha a che fare con la custodia cautelare, che dalla Liguria è arrivata la risposta. Il governatore Toti non si è dimesso, quindi è condannato a una sorta di ergastolo cautelare da un tribunale del riesame che mostra toni e linguaggio che spaziano dal sermone del parroco fino al moralismo talebano. Trentatré pagine di ordinanza, in cui spaziano termini come “etica” e “diritto naturale”, oltre a “illecito di natura veniale”, che mai dovrebbero trovare cittadinanza nei provvedimenti dei magistrati. In certi passaggi anche un certo compiaciuto sfottò, perché Toti – un po’ preso da sfinimento – a un certo punto aveva detto: va bene, io ho sempre agito nell’interesse dei cittadini che mi hanno eletto, ma se i miei comportamenti ai vostri occhi sono reati, li cambierò. C’era anche un pizzico di ironia, in quelle parole.

Toti “sprovveduto”

Ma il presidente Massimo Cusatti e le due giudici laterali Marina Orsini e Luisa Avanzino l’hanno trasformata in sarcasmo. E si sono esercitati per un’intera pagina a trattare il presidente della Regione Liguria come un povero sprovveduto che ha dovuto “farsi spiegare dagli inquirenti che è vietato scambiare la promessa o l’accettazione di utilità di qualsiasi tipo con favori elargiti nell’esercizio discrezionale della propria funzione pubblica…”. Uno che, con quella frase un po’ seria un po’ ironica del “non lo faccio più”, avrebbe intenzione di farsi “spiegare ogni volta dagli inquirenti cosa sia lecito e cosa non lo sia”. Toni un po’ sorprendenti, da parte di chi indossa la toga e dovrebbe rispettare – prima ancora che un rappresentante delle istituzioni – un cittadino sottoposto a indagini.

Chi è corrotto lo sarà sempre

E poi, fatto ancora più grave: gli stessi giudici, nel motivare la pericolosità dell’indagato, si spingono in un mare aperto, in cui né gli stessi pubblici ministeri e neanche la gip Paola Faggioni che aveva emesso l’ordinanza di custodia cautelare avevano finora osato avventurarsi. E cioè che Toti – qualora liberato – potrebbe ripetere lo stesso reato di corruzione, anche in assenza di scadenze elettorali. Detto in termini concreti: chi è corrotto lo sarà sempre. Vengono anche esplicitati i reati in cui potrebbe incorrere, oltre a quello di corruzione, proprio a causa della propria “natura” di persona propensa a delinquere. In che modo Giovanni Toti potrebbe ancora “peccare”? Scrivono i giudici: “…ad esempio, inducendo taluno – con abuso dei propri poteri e della qualità di pubblico ufficiale – a dargli o promettergli nuove utilità per finanziare il proprio movimento politico”. In questo caso, spiegano al colto e all’inclito gli eruditi magistrati, commetterebbe il reato di “induzione indebita ex art. 319-quater c.p.”. Oppure, dissertano ancora gli illustri togati, Toti potrebbe adoperarsi “…per favorire un proprio grande elettore che partecipi a una gara ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione di un appalto per opere pubbliche”. Il che “integrerebbe una condotta di turbativa d’asta”. Chiaro? E a nulla servirebbe all’indagato ormai sottoposto a ergastolo cautelare invocare la propria “buona fede”. La malafede è già accertata, a prescindere.

La vendetta per le 180 domande

Fuori dai paradossi, che comunque sono la chiave di lettura di questa ordinanza in cui ogni passaggio è finalizzato solo a dimostrare la pericolosità intrinseca dell’indagato, la decisione del tribunale di non restituire a Giovanni Toti nessuna forma di libertà o di attenuazione della misura cautelare è fondata solo sul pericolo di ripetizione del reato. Si ripercorre tutta la vicenda giudiziaria, a partire dalla data dell’arresto del 7 maggio, con una particolare sottolineatura dell’interrogatorio (quello delle 180 domande ed altrettante risposte) reso da Toti ai pubblici ministeri, considerato dai giudici tutt’altro che un “beau geste”, che “non brilla di certo per chiarezza e trasparenza”. Quello che per i giudici pare inaccettabile è il fatto che l’indagato ammetta “il fatto” e non “il diritto”, cioè il reato. Ci sono frasi nell’ordinanza che sembrano imparate a memoria dall’eloquenza di Piercamillo Davigo. Altro paradosso, vista la sorte processuale dell’ex pm di Mani Pulite.

Che cosa vuol dire “si pensi, solo a titolo di esempio, a taluno che confessi di essersi impossessato di una cosa altrui, ma pretenda che non si tratti di un furto”, se si tralascia la seconda parte dell’articolo 624 del codice penale, quella che pone come condizione “al fine di trarne profitto per sé o per altri”? Che cosa si rimprovera in definitiva a Giovanni Toti? Il fatto di non essersi comportato come un pubblico amministratore ma come una specie di socio privato occulto di Aldo Spinelli. E soprattutto di non esser stato un vero mediatore tra gli interessi dell’imprenditore e quelli dell’altro socio Gianluigi Aponte, l’armatore che da qualche mese ha acquistato la proprietà del Secolo XIX. Il quotidiano che ogni giorno, goccia dopo goccia, contribuisce alla costruzione del castello d’accusa nei confronti del governatore.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.