Parla l'ex governatore
Totò Cuffaro si racconta: “In carcere anni di dolore, ho sbagliato ma mai favorito la mafia”
«Non una nuova Dc ma una Dc nuova»: parliamo con Totò Cuffaro, governatore della Sicilia fino alle disavventure giudiziarie di cui è stato protagonista, del suo progetto e lui corregge subito il tiro. Rifondare un partito di massa dei cattolici, non un’ambizione di poco conto. «Siamo in una fase difficile, bisogna essere molto attenti, per le nostre famiglie e non solo per noi», dice a proposito del Covid. «Dobbiamo stare rigidamente dentro alle regole e anzi: fare qualcosa di più rigido di quel che dicono le regole per autocontrollarci». Lo dice uno che avendo largheggiato con lo scambio umano anche prossemico – memorabili i suoi baci e abbracci nei congressi Dc e post Dc – deve aver riflettuto a fondo sui comportamenti da tenere o meno. E non si parla di sanità ma di contatti diversamente pericolosi. Perché in Sicilia il virus che più ha ucciso nella storia si chiama Cosa Nostra e certe strette di mano, se non si sta attenti con il disinfettante, portano ad ammalarsi.
Si è pentito più di quel che ha fatto o più di quel che non ha fatto, in Sicilia?
C’è sempre qualcosa che avremmo potuto fare e non si è fatto. Vale per la sanità, dove però c’è una responsabilità nazionale nella programmazione, e c’è una responsabilità nell’esecuzione. Io non ne sono esente.
Un suo errore concreto.
Avrei potuto spingere di più nella costruzione di nuovi ospedali. Con l’allora ministro Sirchia programmammo quattro poli d’eccellenza. Tre sono partiti, uno no. E anche su quello pesarono le attenzioni giudiziarie.
Amministrare in Sicilia è più complicato che altrove?
È più complicato, qui c’è sempre l’elemento criminalità aggiuntivo, che qui è criminalità mafiosa. Quando incappi nelle procedure di questo tipo purtroppo i lavori si fermano per anni e anni, e questo avviene qui diversamente da altre regioni d’Italia. E’ facilissimo sbagliare, impigliarsi…
Per non sbagliare oggi c’è chi rinuncia all’azione amministrativa.
Vittorio Alfieri nel Saul diceva: sol chi non fa, non sbaglia. Questa terra, la Sicilia, è difficile e martoriata, e per questo merita di essere servita e amata un po’ di più.
E invece è indietro sulle opere, sulle infrastrutture. Lei col Ponte di Messina aveva iniziato il progetto. E progetto ha fatto rima con sospetto.
Non c’era solo la fattibilità e il carotaggio. C’era la gara aggiudicata, che ha vinto Impregilo. Avevamo iniziato i lavori, posto le fondamenta dei basamenti. Ma appena cadde il governo Berlusconi e arrivò il governo Prodi, il nuovo ministro dei Lavori pubblici, tale Antonio Di Pietro, fermò le macchine. I soldi erano già stanziati, ma la furia ideologica era quella di chi voleva solo fermare tutto.
Fermare i cantieri, ma anche gli avversari politici.
E certo, le due cose insieme. Lì con Di Pietro nacque la politica giudiziaria che ha poi portato a quel che è venuto dopo.
Movimenti ideologizzati con l’unico ideale di fermare tutto, di incarcerare i nemici, di mandare tutti a casa, di rinunciare alle opere pubbliche. Io invece dico che è ora di ricostruire.
A partire dal ponte, immagino.
Dai ponti. Quello tra la Sicilia e l’Italia, di cemento. E quello tra le persone. Abbiamo bisogno di rapporti umani, di calore umano, di prossimità. Di fiducia.
Lei ha pagato con il carcere. A cosa doveva stare più attento?
Un cattolico come me ha sempre motivo di pentirsi di qualcosa. Ho commesso tanti errori. Se potessi tornare indietro, con il senno di poi non li ricommetterei. So, nella mia coscienza, di non aver mai commesso l’errore di aver favorito la mafia. Anche se di errori ne ho fatti tanti altri.
Però è stato condannato per favoreggiamento.
Sono stato condannato per questa sentenza e l’ho rispettata. Ho rispettato la giustizia come è giusto che faccia chiunque venga perseguito dalla giustizia. Soprattutto quando ti graffia le carni e ti fa del sangue. Perché rispettare la giustizia quando riguarda gli altri è facile. Quando graffia le tue carni è più difficile. Ho fatto del rispetto della giustizia un dovere, anzi direi di averlo percepito come un diritto. Perché i diritti si scelgono, i doveri si ottemperano.
Come è stata la sua esperienza in carcere?
Difficile. Privazione, dolore. Chiuso in cella insieme ad altre quattro persone, a Rebibbia. Aiutato dall’amore della mia famiglia e dalla fede, che hanno fatto diventare quei cinque anni pieni di giornate fertili. Ho trovato nelle carceri comunità ricche di umanità e solidarietà vere.
Da parte delle persone. Non delle istituzioni.
Assolutamente così. Umanità della comunità carceraria, dei detenuti ma anche degli agenti, degli operatori. Quello che non è umano è il sistema così come è concepito. Il carcere va umanizzato, perché lì dentro ci sono persone con la loro dignità e la loro storia. Nessuno Stato può permettersi di vessare, umiliare i detenuti. Perché la funzione del padre non può coincidere con la funzione del torturatore. Altrimenti nasce l’accademia del crimine. Si impara a essere ostili verso le istituzioni.
Lei invece alle istituzioni vuole restituire qualcosa.
Voglio tornare a far avvicinare i giovani alla politica, rifondare la Democrazia Cristiana con l’emozione dei grandi sogni. Tornare a parlare di Sturzo, De Gasperi. Promuovere una scuola delle idee che ha fatto vincere la democrazia nel Novecento, portando di nuovo tante persone insieme, appena si potrà. In occasioni di incontro e di confronto comune.
Mi viene in mente “Todo Modo”, Sciascia.
Una persona fantastica di cui sono stato amico. Lui era in consiglio comunale con me a Palermo. No, non voglio fare Todo Modo. Ma un confronto aperto, solare, con generazioni nuove.
C’è un altro palermitano importante, il presidente Mattarella.
Il vero numero uno, nella storia della Democrazia cristiana, che farò studiare ai nostri giovani. C’è grande attenzione per il pensiero di Mattarella, che ha ancora un grande futuro davanti.
Chi vede dopo di lui al Quirinale?
Mattarella, nessun altro. Il Paese in questa fase ha bisogno di una certezza, ed è lui.
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