Il dibattito, in corso, sulla nomina del nuovo capo dello Stato è davvero deprimente. Esso verte esclusivamente sui riflessi che tale nomina può avere sulla durata della legislatura e sul ruolo che potrebbe giocare nelle congiure di palazzo, che ormai da molto tempo hanno stabilmente sostituito gli esiti elettorali. È da undici anni, difatti, che il presidente della Repubblica incarica governi privi di legittimazione popolare. Non ci si rende conto, tuttavia, che è ormai in gioco la tenuta del paese.

Basta, per rendersene conto, dare un rapido sguardo a ciò che accade. I diritti sociali sono scomparsi dall’agenda politica. Il tema, delicatissimo, delle libertà compresse per combattere la pandemia è ormai da tempo scaduto in un folklore di bassissimo livello, cui non sono estranee alcune forze politiche. I dati, sulla base dei quali sono stati presi i primi provvedimenti per contrastare la pandemia non sono resi pubblici, nonostante un ordine dato dal Consiglio di Stato. Il Tribunale di Milano scrive in una sentenza che la pubblica accusa avrebbe occultato prove favorevoli all’imputato. Sul malaffare nella giustizia rivelato da Palamara è calato il silenzio. A Roma la casa di un pensionato di 86 anni viene occupata abusivamente, approfittando di una sua momentanea assenza, e la tutela è parziale e ritardata. È, questa, una lista penosissima che purtroppo potrebbe continuare a lungo. Soprattutto testimonia una crisi istituzionale, che con la sua pervasività sta mettendo in pericolo la stessa tenuta della società. Del resto, solo in una società malata può accadere che vi sia la pubblicazione del conto corrente bancario di un avversario politico.

Se le cose si vedono in questa diversa prospettiva, appare evidente che la nomina del nuovo Capo dello Stato avrà sì un ruolo centrale e decisivo per il futuro del paese, ma in una prospettiva completamente diversa rispetto ai criteri, cui il dibattito pubblico fa oggi riferimento. All’Italia serve un Capo dello Stato che rispetti e faccia rispettare la Costituzione repubblicana. La quale sarà anche la Costituzione più bella del mondo, ma certamente è una delle meno rispettate, ormai da molti anni. A partire da Mani Pulite, l’equilibrio tra i poteri dello Stato ha subito una lacerazione profonda, alla quale nessun presidente della Repubblica ha più cercato di porre rimedio. Scalfaro si scagliò contro il tintinnar di manette in un momento in cui vi era il rischio che le inchieste potessero lambire anche il suo nome e poi più niente. E nessuno dei Presidenti successivi ha mai più preso posizione sul punto. Si è detto che una tale condotta sarebbe ispirata dalla necessità di non venir meno al ruolo di super partes proprio della carica. Ma, da un lato, proprio questo ruolo implicherebbe una spasmodica attenzione all’equilibrio tra i poteri. Dall’altro, è stata una costante, con qualche rara eccezione, assistere al ruolo da protagonisti che alcuni Presidenti hanno avuto nel dare alle crisi soluzioni artificiose, del tutto indifferenti alla volontà dei cittadini. La cui chiamata alle urne è stata considerata un male da confinare in limiti strettamente necessari. Del resto, un segnale inequivocabile di quanto profonda sia la crisi istituzionale è certamente costituito dalla proposta, attribuibile per quello che si riferisce a Giorgetti, di eleggere Draghi al Quirinale, con l’intesa di dare vita a un semipresidenzialismo di fatto. E non importa che la Costituzione non lo preveda, Né, si badi bene, sono più credibili quelli che arricciano il naso, ma poi sono particolarmente abili e versati nel frodare la volontà popolare.

In questa prospettiva, la prossima elezione del Capo dello Stato costituisce un banco di prova di quale sia l’effettiva volontà di combattere il declino istituzionale, e per conseguenza anche sociale, del paese. Sentire i commentatori fare riferimento all’esigenza di garantire gli equilibri fra le forze politiche o all’esigenza di individuare un Capo dello Stato capace di fronteggiare la eventuale vittoria degli avversari politici significa voler continuare ad ignorare le crescenti difficoltà, in cui versa la democrazia italiana. Evidentemente il campanello di allarme costituito dall’assenteismo record alle recenti elezioni amministrative non ha scalfito l’abitudine delle attuali forze politiche di guardare esclusivamente al proprio ombelico, ignorando o fingendo di ignorare quello che succede fuori dal palazzo.

Se davvero si ha a cuore il futuro della democrazia italiana, il dibattito sul futuro Presidente della Repubblica dovrebbe incentrarsi sulla ricerca di una persona che, per storia e cultura, dia garanzie di interpretare rigorosamente le regole costituzionali e, prima tra tutte, quella che vuole che la sovranità appartenga al popolo. La foglia di fico, più volte invocata, secondo cui i rappresentanti del popolo, una volta eletti, possono infischiarsene della volontà popolare e, in nome di un del tutto soggettivo interesse superiore, far prevalere i giochi di palazzo ha avuto l’effetto, drammatico, di allontanare gli italiani dalle istituzioni democratiche. Già il ruolo di queste ultime è fortemente limitato dall’incidenza, per varie ragioni ineliminabile, della globalizzazione e della appartenenza all’Unione Europea. Se, poi, anche i residui spazi di sovranità sono sottratti all’influenza della volontà popolare, si rischia di innestare un percorso dagli esiti oscuri ed imprevedibili.

Ecco perché l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica costituisce un passaggio, la cui importanza va ben al di là dell’influenza sui contingenti equilibri politici, che stanno a cuore alle forze che siedono in Parlamento. La vera posta in gioco è quella di recuperare la fiducia degli italiani nelle istituzioni democratiche. L’esigenza non è quella di individuare un esperto “navigatore”, ma quella di individuare un autentico garante dei valori costituzionali e, perciò, in primo luogo, di quel principio fondamentale, espresso nell’art. 1 della Costituzione, per il quale la sovranità appartiene al popolo.