Le parole di Draghi sulla questione della competitività europea dovrebbero farci riflettere seriamente sulle sfide che i nuovi scenari geopolitici pongono al nostro continente e al nostro modo di vivere. E soprattutto su cosa dobbiamo cambiare per fare sì che le libertà, i diritti e la qualità di vita che consideravamo acquisiti non vengano spazzati via da qualcosa che non è più solo una competizione economica e industriale ma può divenire un vero e proprio conflitto. La nostra Europa rimane a oggi una delle aree al mondo più evolute tecnologicamente e scientificamente, con una economia ad alta concentrazione di conoscenza e con un elevato livello di scolarità, una eccellente dotazione di infrastrutture e una assoluta libertà di circolazione di capitali, idee, talenti. Queste caratteristiche sembrerebbero metterci al sicuro dal rischio immediato di trovarci superati da autocrazie e da economie dopate da aiuti di Stato più o meno nascosti o dal mancato rispetto di quelle garanzie di cui i nostri lavoratori godono e di quelle protezioni che dedichiamo al rispetto non solo del nostro ambiente ma di quello di tutto il pianeta. Invece appare chiaro che questo vantaggio competitivo si sta esaurendo a causa di una evidente lentezza con la quale le economie e i sistemi industriali dell’Ue stanno rispondendo alle sfide tecnologiche imposte dalle due grandi transizioni che stiamo vivendo: quella digitale e quella green.

Da un punto di vista della governance le istituzioni europee sembrano avere ben chiari questi rischi e da tempo hanno intrapreso una attività di programmazione dello sviluppo che risponda alle esigenze imposte da queste trasformazioni, con interventi legislativi e programmatici quali il piano Next Generation EU e l’European Green Deal, o con le recenti direttive sul mercato dei Servizi Digitali, o sulla Intelligenza Artificiale. Purtroppo però i singoli paesi membri, con ben poche eccezioni, appaiono estremamente lenti nel trasformare questi atti in azioni concrete e nello sviluppo di una nuova politica industriale. Se ci concentriamo sul tema della trasformazione digitale, che rimane evidentemente centrale a tutti i settori produttivi e che comunque influenza pesantemente anche gli sviluppi relativi alla trasformazione green, questa lentezza può essere attribuita essenzialmente a due meccanismi. Il primo è legato ad alcuni vincoli che la stessa Unione europea ha voluto mettere nel tempo alle operazioni di consolidamento tra i principali attori industriali nei vari settori del mercato comunitario. Il secondo invece è legato alla prudenza con la quale sia i governi sia quegli stessi attori stanno affrontando i cambiamenti epocali che stiamo vivendo, in termini di affermazione di nuove tecnologie e di esigenza di rafforzamento delle catene della fornitura nelle filiere produttive della economia digitale.

Un eccellente esempio del primo tipo, ossia di come decisioni legate a considerazioni apparentemente a vantaggio della competizione e dei consumatori possano alla lunga influenzare negativamente lo sviluppo economico e tecnologico, è quello relativo alle telecomunicazioni. Pur partendo da una pluriennale leadership scientifica e tecnologica in questo settore, rafforzata anche dalla volontà di creare uno spazio comune dove i consumatori potessero accedere liberamente ai servizi di telefonia e a Internet, gli obblighi in termini di presenza di più competitori all’interno di ogni paese hanno creato una economia con centinaia di soggetti con ridottissimi margini di guadagno e quindi ridottissima capacità di investimento e di innovazione in tecnologie e in servizi. Con un drammatico effetto a catena sui costruttori europei che si sono trovati a competere non più sulla qualità ma prevalentemente sul prezzo con costruttori di altri paesi che potevano ostentare il vantaggio di sussidi più o meno evidenti, di costi del lavoro più bassi e di mercati nazionali protetti da barriere all’ingresso esplicite o implicite. Un esempio del secondo tipo è la via europea alla evoluzione del settore automobilistico, settore che rimane centrale nella nostra economia ancora fortemente manifatturiera ma che è pesantemente sotto attacco.

Innanzitutto in termini quantitativi, per la capacità di economie come quella della Cina di sfornare milioni di auto elettriche a costi decisamente inferiori; ma anche in termini qualitativi, con la nascita di nuovi soggetti come ad esempio Tesla che – pur avendo una tradizione infinitamente minore in termini di tecnologia meccanica e di valore del marchio – sembra in grado di attaccare anche i costruttori europei di fascia alta che della tradizione e della affidabilità hanno da sempre fatto il loro cavallo di battaglia. La differenza sostanziale è che, mentre per questi ultimi innovare vuol dire mettere più computer all’interno delle loro solite auto, per Tesla la mobilità del futuro è fatta da un super computer con attaccati un motore, quattro ruote e tantissimi sensori per rendere il tutto più “intelligente” possibile.

La domanda che dobbiamo ora porci è come si colloca l’Italia in questo scenario e quali sono i punti deboli e quali quelli di forza che ci differenziano dal quadro generale europeo. Il nostro paese anche in questo caso sembra vivere di evidenti e stridenti contraddizioni. Nonostante quello che crediamo, rimaniamo una nazione di eccellenze, che riesce a formare talenti richiesti in tutto il mondo per creare la spina dorsale di atenei, centri di ricerca, multinazionali dell’innovazione nei settori più di punta quali la meccanica, la chimica, le biotecnologie, la medicina e ovviamente il digitale. Abbiamo aziende medie e piccole in grado di dominare segmenti e nicchie a elevatissimo valore in termini di mercato o di innovazione che vanno dalla meccanica, alla farmaceutica, alla moda fino all’agroalimentare di eccellenza.

Ma siamo anche il paese europeo con i più bassi tassi di scolarizzazione della forza lavoro, con le classifiche di Eurostat che ci mettono indietro a quasi tutti i 27 paesi sia in termini di laureati sia in termini di professionisti nelle aree STEM ma anche per il numero di tecnici specializzati in aree come la meccatronica o l’energia. Siamo la nazione con uno dei tassi più alti di giovani NEET, con una scuola vecchia non solo nei contenuti ma anche e soprattutto nei tempi e nei modi dell’insegnamento. E se da un lato ci preoccupiamo del nostro basso indice di natalità, in realtà fingiamo di ignorare che i ragazzi che comunque nascono in Italia sono quelli che hanno più difficoltà a trovare un posto di lavoro qualificato e adeguatamente retribuito o a trovare supporto e servizi per le famiglie che vorrebbero formare. Con il risultato di una percentuale di fuga di giovani cervelli tra le più alte e una incapacità cronica di attrarre talenti dall’estero, aspetti che sono semplicemente inaccettabili per un paese che vuole rimanere nel G7.

Dobbiamo quindi lavorare per un cambiamento radicale nella nostra politica industriale e della innovazione, che ci consenta di aumentare il numero e la qualità dei talenti che riusciamo a formare e di rafforzare le eccellenze del nostro sistema produttivo dando loro nuovi spazi, nuove opportunità di crescita e di affermazione, dando anche fiducia a quelle startup ad alta tecnologia che troppo spesso si spostano all’estero per avere il successo che da noi non trovano. Ma per fare questo dobbiamo imparare a fare scelte forti e coerenti, che investano le risorse disponibili nei settori a più alto valore tecnologico e di mercato, partendo innanzitutto da una profonda innovazione delle infrastrutture e dei servizi pubblici, innescando un circolo virtuoso che coinvolga le aziende private nel miglioramento continuo dei prodotti e dei servizi che loro offrono. Per quanto possa sembrare strano, la crescita tecnologica di una nazione si può ottenere inventando una nuova generazione di strumenti di diagnostica medica o di robot industriali ma anche lavorando per avere città più efficienti e sicure o facendo in modo di rilasciare un passaporto in pochi giorni. Le risorse ci sono, se solo smettiamo di utilizzarle per rifare gli intonaci dei nostri condomini e decidiamo di investirle in una Italia campione dell’innovazione e che dia finalmente ai giovani lo spazio che meritano.

Giorgio Ventre

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