L'attacco del "Fatto"
Travaglio contro Renoldi: “Fucilate il capo del Dap, per lui la prigione non è una tomba”
Fucilate Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e amico dei mafiosi! L’ordine parte dal giornale di Marco Travaglio e viene immediatamente raccolto dai fedeli scudieri parlamentari grillini, che scattano sull’attenti e vergano un’interrogazione alla ministra Cartabia. Colei che annovera tra i suoi peccati anche quello di aver nominato al vertice del Dap un magistrato che non porta sul petto le stellette dell’antimafia militante. Quella del “processo trattativa” che piace ai Di Matteo e agli Ardita, che infatti sulla nomina nel plenum Csm si sono astenuti.
L’occasione è data da una notizia che proviene dal mondo carcerario (o forse proprio da quello dell’antimafia militante) ed è anche vecchia di due mesi. Da quando cioè una delegazione dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in visita autorizzata nelle carceri della Sardegna, nelle giornate del 7 e 10 maggio, ha potuto incontrare anche i detenuti ristretti al regime del 41-bis. Scandalo! Il Fatto si riferisce alla presidente dell’associazione, Rita Bernardini, e ai due dirigenti Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti (definiti anche con sprezzo “coniugi”, come se fosse un reato) trattandoli come se fossero stati sorpresi mentre fornivano lenzuola annodate e per far evadere Zagaria e Bagarella. Ma lo scandalo consiste solo nel fatto che nell’autorizzazione rilasciata dal direttore Carlo Renoldi per l’accesso della delegazione agli istituti di Sassari e Nuoro mancasse la dicitura “a esclusione della sezione 41-bis”. Una scelta positiva. Tenendo presente anche il fatto che il carcere “impermeabile” non riguarda solo i condannati, ma anche persone in custodia cautelare.
Ma è chiaro il retro-pensiero di chi non ha neppure la più pallida idea di che cosa sia un carcere né dei diritti civili e umani. I “pizzini”, questo è il primo sospetto. Come se chiunque si occupi dei diritti dei detenuti, e lo stesso direttore del Dap, fossero complici dei boss e pronti a farsi da tramite per aiutarli in nuovi delitti. Così non sfiora la mente il fatto che un’associazione come “Nessuno tocchi Caino” possa invece essere molto utile per aiutare anche coloro che un tempo uccisero e fecero stragi, al superamento di quel che furono e a un percorso di cambiamento. Meglio invece, per la subcultura travagliesca e grillina, tenere questi uomini come belve feroci isolate e chiuse nei loro recinti. Certo, la nomina nel marzo scorso da parte della ministra Cartabia di un magistrato come Carlo Renoldi al vertice del Dap, e tre mesi dopo di un funzionario esperto come il provveditore regionale di Lazio Abruzzo e Molise (ma anche ex direttore delle carceri di Brescia, Padova e Rebibbia nuovo complesso) come Carmelo Cantone, ha segnato una svolta. E al Fatto quotidiano schiumano di rabbia.
La militanza antimafia comporta che tutto rimanga sempre come era, con i delinquenti fermi all’immagine di quel che erano stati al momento dell’arresto, a meno che non facciano i “pentiti”, magari mandando in galera un po’ di innocenti come fece, ispirato dai tanti suggeritori e dopo esser stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, Vincenzo Scarantino. “Visite anti-ergastolo ai boss”, le chiamano al Fatto. Con disprezzo nei confronti della Corte Costituzionale e delle sue sentenze che hanno aperto la strada prima ai permessi premio e in seguito agli altri benefici penitenziari previsti dal regolamento anche per i condannati “ostativi”, vittime da trent’anni di una normativa incostituzionale. «Ci risulta che si sia parlato dell’ergastolo ostativo», si scrive con lo stesso tono scandalizzato che si userebbe se fosse stata programmata un’evasione di massa dei boss mafiosi. Meglio spettegolare, con lo stile di chi intervista i citofoni, sul fatto che il direttore del Dap, cioè il numero uno dell’amministrazione penitenziaria, nel firmare il permesso all’associazione di incontro con tutti i detenuti, avrebbe “approfittato” dell’assenza di colui che era ancora il suo vice, l’ex pm “antimafia” Roberto Tartaglia, orgogliosamente ricordato come uno dei promotori del fallimentare “processo trattativa”, per compiere la scappatella.
Come se la storia stessa di Carlo Renoldi, quel che ha sempre detto e fatto, non parlasse per lui. Se ne erano ben ricordati i due membri del Csm che non lo hanno votato, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, che avevano prontamente raccolto il “la” inviato loro, dalle colonne del Fatto quotidiano ovviamente, da Giancarlo Caselli, quasi un ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. E pensare che ogni giorno l’ex segretario di Magistratura democratica Nello Rossi ci ricorda dei fasti garantistici che furono della corrente di sinistra, dimenticando che anche l’ex procuratore Caselli viene di lì, da quella storia. Da un mondo che bocciò sempre la carriera e le aspirazioni, ma anche il pensiero, di un gigante come Giovanni Falcone. Un mondo che oggi senza vergogna si ritrova contiguo a Marco Travaglio. Ci provano anche con Carlo Renoldi, perché è un riformatore, e lo sta dimostrando. Per questo ogni occasione è buona per proporre la sua fucilazione, cioè tentare di portarlo alle dimissioni. Ma sarà dura, con la ministra Cartabia.
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