La gogna, il suicidio, le accuse
Travaglio e il pg Saluzzo fanno a gara di ferocia sul corpo di Burzi
Può un Procuratore generale di una città importante come Torino, un austero e rigoroso esponente di Magistratura Indipendente, ritrovarsi suo malgrado al livello di Marcolino l’Ignorantone del diritto? Parrebbe impossibile, pure è accaduto anche questo, nel pentolone ormai ribollito dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Che il suicidio di Angelo Burzi, ex consigliere e assessore della Regione Piemonte, e soprattutto il messaggio politico contenuto nelle lettere che lui ha lasciato, avrebbero suscitato discussioni e polemiche era ampiamente prevedibile.
Perché questi processi, che portano il nome di “Rimborsopoli” e che hanno riguardato tutte le Regioni italiane, hanno avuto sentenze a macchia di leopardo, prima di tutto per la difficoltà interpretativa sulla natura e l’uso dei fondi rimborso messi a disposizione di ogni gruppo e partito e poi di ogni singolo consigliere. Poi anche perché, come nel caso del Piemonte, è apparso agli esponenti di alcuni partiti locali una disparità di trattamento “politico” soprattutto da parte dei rappresentanti dell’accusa. Resta il fatto, principale, che diversi giudici abbiano palesato quanto meno quel “ragionevole dubbio” che impone l’assoluzione degli imputati. In Liguria, in Emilia, nel Lazio e anche in Piemonte in primo grado. Possibile però che la casta dei procuratori non abbia mai dubbio alcuno? Possibile che mai, ma proprio mai, qualche pm abbia la curiosità, come gli impone la legge, di andare a curiosare tra indizi e prove, per vedere se ce ne sia qualcuna in favore dell’imputato?
Il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo ha ritenuto di spendere il suo tempo e la sua competenza per tentare di precisare, ma anche di arginare la valanga di commenti e di autentico sconcerto per un evento tragico motivato dallo stesso autore come gesto politico e di protesta contro l’ingiustizia di una parte della magistratura. Due pagine, che l’alto magistrato chiede siano pubblicate integralmente. La Stampa, quotidiano torinese, l’ha fatto. Gli altri hanno spulciato. Ma è importante leggerlo tutto. Stride subito un’assenza. Il ricordo della dottoressa Silvia Bersano Begey, la presidente della prima sezione penale di Torino che assolse Angelo Burzi e i suoi colleghi, ritenendo le sue e le loro richieste di rimborsi compatibili con spese di rappresentanza. Non si può ricostruire la vicenda giudiziaria dell’ex assessore di Forza Italia senza ricordare questo passaggio processuale e i suoi protagonisti. Soprattutto quella presidente che Angelo Burzi ringrazia per la sua correttezza nelle sue lettere d’addio e che gli stessi magistrati e avvocati torinesi hanno voluto ricordare, dopo la sua morte prematura nel febbraio scorso come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”.
Non si può dimenticare questa giudice, e poi concludere con un concetto che è addirittura opposto a quello espresso nei necrologi che la ricordano. Con queste parole: «Va ristabilita la verità e l’obiettività delle vicende e delle dinamiche. E nelle dinamiche processuali vi è anche la diversa valutazione del giudice (soprattutto di appello) che non deve essere apprezzato ed applaudito solo quando assolve o riduce le pene». Nessun applauso dunque, né per i vivi né per i morti. Ma se ci guardiamo intorno e vediamo le diverse decisioni assunte da diversi tribunali per fatti simili se non uguali, vogliamo farci attraversare la fronte da un’ombra di dubbio, prima di parlare di “verità” e “obiettività” dei fatti? Un’altra frase del procuratore – la penultima delle due pagine – colpisce. E stupisce per lo stupore del dottor Saluzzo nel constatare il mancato “pentimento” dei suoi imputati. «Debbo anche osservare come gli esponenti politici coinvolti non abbiano neppure mostrato di voler prendere atto della irregolarità (chiamiamola così) delle loro condotte, frutto di anni di prassi illegali, per operare una “svolta” all’interno del processo. Anzi, hanno orgogliosamente rivendicato la correttezza del loro operato…».
Ecco, appunto, davanti a questo quadro, a quanto pare generalizzato, davanti a questo orgoglio di tanti esponenti politici, non viene un dubbio sul confine tra legalità e illegalità, su regolarità e irregolarità, su prassi e regolamenti? Certo, “peculato” è una parola dolce da assaporare, soprattutto quando serve a richiudere la classe politica, tutta quanta, in quel “serraglio” di cui parlava Gabriele Cagliari. Certi magistrati, nel distinguo perenne tra il noi e il voi, tra il puro e l’impuro, non si rendono neanche conto del fatto di svolgere un ruolo politico. Che senso ha, per esempio, rappresentare l’accusa nel processo di primo grado e poi tornare sullo stesso scranno come pg nell’appello come è successo a Torino al dottor Giancarlo Avenati Bassi? Come potrebbe capitare a Milano all’appello del processo Eni con il pm Fabio De Pasquale? Come si pretende che nei processi politici come quelli di “Rimborsopoli” o di grande impatto mediatico come quello dell’Eni, l’opinione pubblica non pensi a un accanimento da parte delle Procure, se lo stesso accusatore che ha “perso” la prima causa, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nella seconda? Anche se la legge glielo consente?
Riprendiamo per ultimo, l’argomento di apertura di queste riflessioni. “Con garbo”, proprio come ha scritto il procuratore Saluzzo. Ci rendiamo conto che il paragone con un Travaglio qualunque per l’alto magistrato è decisamente una forzatura di cui ci scusiamo in anticipo. Però, se il caro Marcolino l’Ignorantone del diritto ignora il fatto che il patteggiamento non comporta l’ammissione del reato contestato, non è un po’ la stessa cosa sostenere che Angelo Burzi “non riteneva di poter contestare” alcuni addebiti “pur rivendicando in più occasioni la correttezza complessiva del suo operato”? E che avrebbe scelto di patteggiare una pena nel “Rimborsopoli due” perché non era in grado di difendersi dalle accuse? Non viene il dubbio che magari semplicemente lui non ne potesse più, dopo dieci anni, di questi processi uno e due che si inseguivano come un gioco di specchi all’infinito? E che abbia alla fine detto basta proprio per questo? Travaglio queste cose non le può capire, anche perché a volte, per come parla e scrive, pare privo di quegli organi vitali, che vanno del cervello al cuore, che gli sarebbero utili anche per ragionare sulle ingiustizie del mondo. Ma un magistrato colto e preparato come il dottor Saluzzo forse potrebbe rifletterci sopra.
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