Dopo la decisione, del 5 maggio scorso, del Tribunale costituzionale tedesco di Karlsruhe (Bundesverfassunsgericht), che ha messo sotto accusa il programma di acquisto di bond da parte della Bce, si è registrato il susseguirsi di rassicurazioni che la decisione non avrà alcun impatto sulla politica di aiuti agli Stati membri (Commissione e Bce) e di prese di posizioni durissime contro il predetto Tribunale (Corte di giustizia), addirittura con la minaccia di una procedura di infrazione a carico della Germania (Commissione). La reazione, immediata e coerente, dei vari attori coinvolti è stata utile: i mercati si sono subito calmati e lo spread non è schizzato alle stelle, come altrimenti sarebbe inevitabilmente accaduto, specie ove si consideri che, ormai, il mercato, al di là delle valutazioni delle agenzie di rating e delle conseguenze dovute agli acquisti della Bce, tratta i titoli italiani, secondo quello che riferiscono alcuni operatori, quasi come titoli spazzatura. Sarebbe, tuttavia, un errore ritenere che il problema sia superato. Anzi.

Conviene prendere le mosse, per comprendere le difficoltà che sono davanti, dall’inusuale comunicato della Corte di Giustizia, con cui si ricorda che «una sentenza pronunciata in via pregiudiziale da questa Corte vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia innanzi ad esso pendente». Ebbene, non è più, e da tempo, così, almeno per quei particolari giudici nazionali che sono le Corti costituzionali. La prima a sottrarsi al vincolo è stata la Corte tedesca, ma ad essa si sono subito accodate anche le Corti degli altri paesi, tra cui quella italiana. In particolare, la Corte italiana ha più volte affermato, dopo le prime incondizionate affermazioni della prevalenza del diritto europeo, che le limitazioni alla sovranità, che scaturiscono dall’adesione all’Unione Europea, in tanto sono riconosciute ed accettate in quanto non intacchino i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e i diritti inviolabili della persona umana (la teoria dei controlimiti). Il che è un modo, più o meno elegante, per affermare che alla bisogna, potendo ogni materia essere ricondotta ai principi fondamentali ed ai diritti inviolabili, l’ultima parola spetta alla Corte nazionale.

Queste considerazioni fanno, allora, comprendere che la Corte tedesca non ha affatto agito nel quadro, come si è fatto intendere, di una estemporanea fuga dai vincoli europei, bensì nell’ambito di un consolidato orientamento di tutte le Corti costituzionali degli stati europei. Restituita, alla decisione, la coerenza (con i principi da tempo enunciati e con la posizione delle altre Corti costituzionali) che si è fatto finta di ignorare, occorre considerare le conseguenze. La soluzione, cui molti hanno accennato, è quella di una relazione inviata dalla Bce, che plachi la Corte tedesca. Ma si omette di considerare che, se così fosse, resterebbe affermato il principio della subordinazione della Bce alla Corte costituzionale tedesca e della irrilevanza, per quello che concerne questo aspetto, della Corte di giustizia dell’Unione europea. Si creerebbero, perciò, le premesse per ulteriori, ed ancora più devastanti, fratture nel tessuto dell’Unione europea, che potrebbero essere prodotte dalla Corte costituzionale di qualsiasi altro stato membro.

Ha ragione, perciò, Dolores Utrilla quando, nel suoi bell’articolo su questo quotidiano, afferma che «il Tribunale costituzionale… ha appena assestato un colpo durissimo, potenzialmente letale, allo Stato di diritto europeo». D’altro canto, non è neppure pensabile che la richiesta della Corte tedesca resti inevasa. Da un lato si avrebbero ripercussioni, anche queste incalcolabili, sul tessuto istituzionale della Germania e, dall’altro, non si può neppure ignorare che quella decisione corrisponde ad una istanza portata avanti da una parte significativa dell’opinione pubblica tedesca.

L’unica risposta adeguata sarebbe, allora, quella di mettere mano ai Trattati europei, in modo da portare l’integrazione ad un livello che non consenta fughe da parte delle Corti nazionali. Ma oggi è un processo inimmaginabile. E diventa inevitabile interrogarsi se l’accelerazione voluta dalla Commissione Prodi, che consentì l’adesione di pressoché tutti i paesi europei, prima che fosse attuata una riforma adeguata della architettura su cui si regge la costruzione europea, non sia stato un errore gravissimo. Oggi quella riforma è impossibile stante la necessità del consenso unanime di 27 Stati.