Non esco più molto di casa, la mia finestra sul mondo è Facebook, spesso disperante per quello che vi appare, a volte però no. Qui, tra l’altro, giovani donne e uomini, giustamente festanti, postano una loro fotografia, con abitudine ormai diffusa: l’ingresso del Palazzo di Giustizia di Napoli alle spalle, la mano destra alzata nel segno di un’orgogliosa V, superato l’esame orale. “Ce l’ho fatta, sono avvocato”. Una di loro si chiedeva qui ieri, autoironicamente: “Sono diventata avvocata, sognandolo fin da bambina, nel giorno in cui vi hanno tolto la scritta ‘Palazzo di Giustizia’. Sarà un caso?”. Infatti, nel momento dello scatto, alle sue spalle non si leggeva nulla, poi essa è ricomparsa in altre immagini su un precario striscione sventolante, che a pensarci bene (se fosse lasciato così) potrebbe alludere ai venti non benevoli che squassano l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese.

Le ho dato l’ad majora, raccontandole il motivo, per una volta bello, di questa temporanea defissione. Coi pareri favorevoli della Prefettura e degli organi istituzionali della magistratura e dell’avvocatura, la Giunta municipale, che ha competenze di gestione materiale dell’edificio, ha deliberato unanime che esso fosse dedicato ad Alessandro Criscuolo e dunque si sta provvedendo. Il Presidente se n’è andato all’inizio del lockdown e si è potuto ricordarlo nell’immediato solo nei siti telematici. Oggi questa intitolazione ripara un poco ad un’assenza forzata di celebrazione per un gigante del diritto, la cui auspicata solidità egli ricordava nell’aspetto fisico massiccio, che però, a incrociarlo, non incuteva timore, ma piuttosto un’immagine di serietà, l’idea che quel giudice (non è stato mai pubblico ministero) avrebbe ascoltato con pazienza, perizia e sapienza – in una parola con equilibrio – le ragioni di chi si fosse a lui rivolto con ansia di giustizia. La voce dedicatagli su Wikipedia restituisce le tappe di una vita prestigiosa: giovanissimo magistrato dal 1964, quindi pretore a Pomigliano d’Arco e a Napoli, poi dal 1975 a Castelcapuano, dove appunto, freschissimo di laurea e all’inizio della pratica forense, lo conobbi io nella prima sezione: la crème fra tutte, dedicata allora e ancor oggi ai delicatissimi conflitti che attraversano la famiglia, in Corte d’Appello dodici anni dopo.

Nel frattempo ricopriva ruoli associativi e istituzionali di vertice: dal 1984 al 1988 presidente dell’Associazione nazionale magistrati, due anni dopo al Consiglio superiore della magistratura fino al 1994. Tornato in ruolo, in Cassazione, presiedendovi dal 2005 la sesta sezione penale e poi la prima civile. Nel 2008 alla Corte costituzionale, eletto al primo turno e dunque insolitamente senza ballottaggio, ne fu componente e presidente, fino a quando (rimanendo giudice) si dimise dalla funzione per assistere la moglie malata. Ricordo il nostro ultimo incontro: essendo stato lui relatore della nota sentenza sui matrimoni gay, avevo organizzato un convegno all’università per discuterne, invitandolo a concluderlo Si schermì signorilmente, osservando che per il ruolo avuto non intendeva strozzare il dibattito. Una sentenza che sembrava passatista, ma lasciava spiragli, come scrissi commentandola e ho avuto ragione. Questo giornale è spesso severo, con la magistratura, da sentinella dell’opinione pubblica: un ruolo che svolge bene. Se però s’incontra un grande uomo fra i giudici, onestà vuole che lo si riconosca e che ci si tolga il cappello.