Ieri mattina il Palazzo di giustizia di Milano era deserto come nemmeno in agosto. Un paio di magistrati sono risultati infetti, e il presidente del Tribunale ha disposto che i giudici del settore civile provvedano a rinviare “a data congrua” le cause chiamate sino al 9 marzo (è fatta eccezione per alcune categorie di procedimenti, come quelli d’urgenza o relativi al trattamento di posizioni personali molto delicate). Poi si vedrà.

Intanto però è un macello. Già solo organizzare i rinvii delle udienze è difficile, perché non si fa con un fischio ma serve un provvedimento, che deve essere acquisito dalle cancellerie e comunicato. Sembra nulla ma è complicato, se moltiplichi la cosa per gli innumeri fascicoli che aggravano i ruoli. E poi i termini processuali sono stabiliti dalla legge, non puoi rifare un’agenda dei processi che li trascura. Per non parlare di quel che significa un simile blocco per le persone e le imprese inevitabilmente implicate in una situazione di giustizia congelata. Un guaio, insomma.

Si tratta senz’altro di misure necessarie nella gestione di un’incertezza effettiva circa i pericoli di contagio e in vista di quelli, gravissimi, cui potrebbe essere esposta la stessa tenuta dell’efficienza amministrativa. Ma questo piccolo caso riguardante la giustizia milanese (piccolo per modo di dire visto che si tratta di un centro di interessi importantissimo) induce a riflettere molto seriamente sulle ragioni di uno stato di agitazione ben più vasto e che, identicamente, coinvolge pressoché ogni settore della vita sociale. E la riflessione, magari banale ma dovuta, è questa: siamo sicuri che questi provvedimenti di apparentemente necessario contenimento non siano l’effetto di comunicazioni inadeguate da parte dell’autorità pubblica, e di una concezione ormai completamente stravolta della convivenza civile? Ieri ero appunto in tribunale, dove ho constatato quella desolazione agostana.

E La giudice con cui parlavo, come diciamo noi, “a margine” dell’udienza, la quale aveva pur doverosamente disposto le sedie l’una distante dall’altra, così che noi avvocati non si rischiasse contaminazione e di contaminare, mi confidava: decenni e decenni di pace e benessere ci hanno fatto credere di aver diritto di non soffrire, di non ammalarci, ma non è un diritto e se pure lo fosse avremmo comunque il dovere di accettarne la provvisorietà, la precarietà nel caso di vicende di questa portata. Parole ragionevolissime.  E non perché uno dovrebbe allargare le braccia e non far nulla davanti alla possibilità di ammalarsi, ma perché l’alternativa al pericolo non è l’assenza del pericolo, che non si può ottenere, ma la gestione ragionevole della situazione rischiosa.

E a me pare che la sostanziale chiusura di un ufficio pubblico, mentre è disposta – come nel caso del tribunale milanese – per indiscutibili esigenze cautelari, trovi causa in realtà in motivi più profondi, motivi che di ragionevole non hanno proprio nulla e sono invece il segno di una contaminazione già avvenuta e più grave: l’idea, appunto, che occorra garantire un diritto che concretamente non si può garantire, il diritto di tutti a non ammalarsi al costo di arrestare la vita di un Paese intero.  Un Paese di vivi, ammalato di sicurezza. Per parte mia, eviterò di dare dettagli sull’impiegato che mi ha salutato con uno starnuto, all’uscita del tribunale.