Gira sui social un meme in cui Joe Biden si chiede preoccupato: “Come sta Kennedy?”. Dice più di tante analisi. Il presidente in carica è drammaticamente indietro rispetto al suo competitor che oggi, come evocazione retorica, arriva a toccare il mito di JFK. Fioccano anche tesi complottiste, da entrambe le parti. Ma che l’attentato a Donald Trump fosse previsto o che sia stato creato ad arte è indimostrato. Il complottismo come sempre impedisce di guardare le cose come sono, e in particolare due fatti che invece sono ampiamente dimostrati. Il primo è che Trump è lo stesso di Capitol Hill, colui che aizzò gli assaltatori delle istituzioni americane in un’insurrezione che provocò cinque morti, ma per la giustizia Usa è perfettamente candidabile. Perché oggi nessuno gli ricorda che la miccia sotto la politica americana l’ha accesa lui nel gennaio 2021? Il secondo è che il suo antagonista Joe Biden è un leader debole e inadeguato, ma il suo partito prima lo ha designato e ora ritarda in modo drammatico a sostituirlo. Insomma, in un sistema che funziona, Trump non avrebbe dovuto essere in Pennsylvania per stagliarsi sanguinante ed eroico sullo sfondo del cielo azzurro e della bandiera a stelle e strisce. E in un sistema che funziona, i democratici avrebbero saputo esprimere una proposta politica diversa o perlomeno correggerla per tempo.

La malattia senile delle democrazie

Ad oggi, siamo ancora al chiacchericcio e al totonomi, come se si dovesse scegliere un ministro e non il candidato a guidare la resistenza della democrazia al più violento e concentrico attacco dopo il periodo hitleriano. Siamo ancora a news spensierate-hollywoodiane tipo che George Clooney si è sganciato dall’amico Biden. Le tecnologie fotografano persino una pallottola in volo. La politica europea e americana è un continuo “timelapse”. Stiamo pensando, stiamo provvedendo, ci riuniremo, decideremo. Il ritardo è la nuova categoria del cronico affanno del fronte occidentale. È la malattia senile delle democrazie, un sistema di alleanze e di valori che non ha compreso che il fattore tempo è diventato decisivo. È l’epoca in cui Putin fa politica bombardando gli ospedali pediatrici. È l’epoca in cui Hamas in un solo giorno di ottobre rivolta la storia del Medio Oriente, mentre sulla questione palestinese il governo israeliano dormiva il sonno politico più profondo. Intanto, Viktor Orban utilizza i primissimi giorni della sua presidenza europea per volare a Mosca, e mentre l’Europa inizia a porsi il problema della sua legittimazione, è già a Pechino e poi da Trump. I nemici esterni e interni si muovono con gli impulsi di una nuova agenda della politica e della comunicazione.

Un gran circo

L’Europa è ancora ferma al lungo torpore che fu di Angela Merkel, quando le movenze felpate si fondavano sul falso presupposto che il resto del mondo fosse fermo. Al momento, dopo anni interi privi di azioni incisive sulle crisi aperte in Ucraina e a Gaza, la questione più urgente sembra essere la “maggioranza Ursula”: fin dove si estenderà? Ancora più disarmante la situazione politica di un paese chiave come la Francia. Dopo le manifestazioni sullo scampato pericolo fascista, provocato peraltro dallo scioglimento repentino del Parlamento voluto da Macron, siamo fermi da settimane ad una sit com di liti fra comari che ha imbarazzato lo stesso presidente. E mentre dal vicino Belgio arriva un divertito “tutorial” su come sciropparsi una crisi politica che può arrivare fino a due anni, sembra che a breve Macron si deciderà ad accettare le dimissioni del suo primo ministro. Ma per far cosa non si sa. Nel frattempo, è inutile dire a quale partito francese giovi lo spettacolo della paralisi. Se questo è il “capolavoro politico”, è lecito chiedersi in cosa sarebbe consistito il disastro. “Fight”, ha saputo dire Trump sanguinante. “Combatti”, verrebbe da dire al blocco liberale oggi assediato eppure così sonnolento.

I tempi della democrazia

Si dice: i tempi della democrazia non sono quelli della Russia, della Cina o dell’Iran. Ma la democrazia i suoi tempi deve saperli modulare, così come i meccanismi di governance per pervenire a decisioni veloci e vincolanti. Chi lo ha capito, su questo costruisce la sua propaganda. Qual è, ad oggi, la carta decisiva e attrattiva del trumpismo se non la promessa di ergere muri, imporre dazi e chiudere le guerre “in un giorno”? Ma al di là degli annunci, il cambio di passo si può fare. Se così non fosse, Helmut Khol non avrebbe riunificato le due Germanie in un lampo o, più vicino nel tempo, Mario Draghi non avrebbe avviato la più grande opera di unità e solidarietà economica della storia dell’Unione. Whatewer it takes, tutto ciò che serve per decidere, per decidersi, per svegliarsi dall’illusione del ballo sulla tolda delle libertà.

Sergio Talamo

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