La Turchia, assieme a Regno Unito, Brasile e Australia ha ricevuto il miglior trattamento nell’applicazione dei dazi doganali imposti dall’amministrazione Trump. L’applicazione dell’imposta del 10% sulle sue esportazioni verso gli Stati Uniti sembra non destare molta preoccupazione ad Ankara che comunque non rappresenta per Washington un partner commerciale molto rilevante.

L’annuncio di Trump è arrivato proprio mentre l’Istituto statistico turco, TUIK, annunciava per il decimo mese consecutivo il rallentamento del tasso di inflazione annuale, ora assestatosi al 38,1%, il livello più basso dal dicembre 2021. Non vi è dubbio che le turbolenze politiche interne con le diffuse e quotidiane proteste antigovernative dopo l’arresto del maggiore rivale di Erdogan, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, e i dazi di Trump rappresentino un rischio elevato per le pressioni sui prezzi. Alcuni esperti ritengono che i dazi potrebbero esercitare una pressione indiretta sulla lira turca.

La grande opportunità con Trump…

Tuttavia Ankara vede per se una grande opportunità con Trump alla Casa Bianca. La Turchia e gli Stati Uniti sono ai ferri corti in Siria, dove Ankara sta spingendo affinché il Pentagono ponga fine alla loro alleanza con le Forze democratiche siriane (SDF) guidate dai curdi, che Ankara considera una delle principali minacce alla sicurezza nazionale a causa dei suoi legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che da decenni conduce un’insurrezione armata contro la Turchia per ottenere l’autonomia del sudest anatolico. I curdi sono preziosi alleati di Washington nella guerra contro l’Isis, ma Ankara chiede il disarmo delle SDF e vuol fornire un’alternativa alla presenza delle forze curde costituendo una coalizione anti Isis regionale da forze irachene, siriane, giordane e libanesi che sostituirebbe l’alleanza degli Stati Uniti con le SDF contro lo Stato islamico in Siria.

Il Dipartimento di Stato mostra interesse per questa iniziativa turca e in cambio sembra aver chiesto il suo aiuto per convincere Hamas a disarmarsi a Gaza per esistere e agire solo come partito politico. Il magnetismo personale esistente tra il presidente Trump e la sua controparte, Recep Tayyip Erdogan, potrebbe dunque spianare la strada a un’ulteriore cooperazione in ambito militare ed economico con il rientro di Ankara nel consorzio di produzione e acquisizione dei caccia F-35 dal quale è stato espulso nel 2019 per l’acquisto del sistema russo S-400; aiutare inoltre la nuova amministrazione statunitense in Ucraina e in Siria, nel contenimento dell’Iran in Medio Oriente, della Cina in Africa e perfino nel conflitto israelo-palestinese.

Il ruolo della Turchia secondo gli Usa

Non a caso il segretario di Stato americano Marco Rubio ha mostrato totale indifferenti nei riguardi dell’arresto di İmamoğlu e della brutale repressione delle forze di polizia contro giovanissimi manifestanti e alle torture subite dagli studenti, durante l’incontro avuto il 25 marzo a Washington con il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan. Questa indifferenza non è per nulla inedita, è la stessa che si registrò di fronte alla violenza scatenata dal regime militare turco contro un milione e mezzo di oppositori nel terribile golpe del 12 settembre 1980. Adesso nell’incontro incontro tra Rubio e Fidan si sono affrontati molti argomenti, dalla Siria, affinché non si verifichi una deriva islamista, dal disarmo congiunto del partito armato curdo PKK e di Hamas alla guerra tra Russia e Ucraina, dal contenimento dell’Iran e della Cina, alla pace tra Azerbaigian e Armenia, fino all’industria degli armamenti.

Quello stesso giorno, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha elogiato Erdoğan definendolo un buon leader. Gli Stati Uniti hanno bisogno di cooperazione turca per arginare la Russia nel Mar Nero e nel Mediterraneo, nei Balcani e nel Caucaso, per tenere a bada il nuovo inquilino di Damasco, al-Sharaa, per tenere lontano l’Iran dalla Siria e dalla Palestina, per contenere la Cina in Africa. Per far sì che ciò accada, gli Stati Uniti sono disposti a dare a Erdogan mano libera in politica interna.