Il diritto penale “à la carte”
Turetta e la spettacolarizzazione del processo: “Voglio l’aggravante” senza avere la minima idea di cosa si parli

Solo in un Paese che abbia perso ogni senso della misura e del ridicolo, può accadere ciò a cui abbiamo assistito all’esito del processo a carico del signor Filippo Turetta. L’autore dell’efferato omicidio di Giulia Cecchettin, comprensibilmente al centro della pubblica attenzione, è stato condannato alla pena massima, il carcere a vita, essendogli stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione. Ma si scatena un acceso dibattito, dai toni aspri e polemici, per essere state escluse – d’altronde senza nessuna possibile conseguenza sanzionatoria – altre due aggravanti contestate: stalking e crudeltà.
La sentenza spiega accuratamente, da un punto di vista tecnico, le ragioni di questa decisione, dopo aver chiarito le condizioni della loro applicazione come fissate da alcuni decenni di giurisprudenza di legittimità e di merito. Ovviamente si può contestare quella decisione, ma solo ponendosi sul medesimo piano tecnico. Qui invece abbiamo assistito alle consuete discussioni tra persone appena appena o niente affatto infarinate di basilari cognizioni giuridiche, che si pretende di legittimare con il più micidiale degli argomenti: il diritto penale non può “divorziare dal senso comune”.
Il populismo penale, le “legittime aspettative”
Eccolo, il cuore pulsante del populismo penale, questo veleno che ormai circola impetuoso nelle arterie del nostro sistema giuridico. Il diritto penale deve rispondere alle “legittime aspettative” di quel “popolo italiano” in nome del quale sono infatti pronunziate le sentenze; come se quella formula potesse mai essere stata concepita per autorizzare un simile scempio. Si tratta di una pretesa in grado di sovvertire i cardini del sistema giudiziario dei Paesi democratici, basati sui princìpi dello Stato di Diritto. Princìpi che imporrebbero l’esatto contrario: è il senso comune delle persone che deve educarsi alla comprensione dello spirito delle leggi, prestando ossequio ad esso quale regola fondativa del patto sociale.
Aggravare le pene…
Fino a qualche anno fa queste pulsioni giacobino-populiste venivano grosso modo tenute a bada, poi la barriera è crollata. Il legislatore (di ogni colore, sia ben chiaro) ha cominciato ad inseguire “le aspettative” della pubblica opinione su un tema, quello della giustizia penale, sempre più voracemente al centro delle attenzioni mediatiche e social, ma soprattutto sempre più decisivo in termini di consenso. E questa pericolosa e sempre più inarrestabile tendenza, se ci riflettete bene, viene declinata con un solo verbo: aggravare. Aggravare le pene, inasprire le circostanze aggravanti, ampliare a dismisura il catalogo (dei reati e) delle aggravanti. L’esempio massimo, davvero espressivo di questo degrado culturale e politico, lo leggiamo nell’incredibile “decreto sicurezza” di nuovo conio: tutti i reati comuni (tutti!) sono “aggravati” se commessi nelle stazioni (ferroviarie o della metro) o nella loro “prossimità”. Insomma, una violenza sessuale commessa in stazione è “più grave” di quella commessa, per dire, in una discoteca. Questo perché – dobbiamo immaginare – in quelle zone la percezione (via X o TikTok) di insicurezza da parte della “gggente” sarebbe (e forse davvero è) fortemente implementata dai video e dalle connesse, virulente polemiche social. Un delirio normativo che lascia senza fiato.
Siamo, dunque, al diritto penale à la carte: al tavolo, influencer e trasmissioni televisive dedicate al tema, che “ordinano” nuovi reati e nuove aggravanti; e legislatori in livrea che eseguono, con inchino. PQM oggi prova un esperimento: come dovrebbero raccontarsi alla pubblica opinione le complesse, dolorose, terribili vicende del diritto penale e della sua difficilissima applicazione. Una boccata di aria pulita. Con poche speranze, ma con autentico orgoglio. Buona lettura.
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