“Papà, ci andiamo di nuovo?”. I più piccoli vogliono tornare nei luoghi in cui hanno vissuto esperienze importanti, come accade per i film, che sono disposti a riguardare anche trenta o quaranta volte. Così il turismo scolastico finisce per influenzare il turismo estivo, con i genitori disposti a soddisfare il desiderio dei figli di rivivere i luoghi che hanno conosciuto nel viaggio d’istruzione. Località non troppo note sullo scenario turistico nazionale, ma particolarmente attive per l’offerta di turismo scolastico, si trovano così a beneficiare di una significativa ricaduta. Non è propriamente un fenomeno di massa, ma neppure è da trascurare.

Se n’è occupata, assieme a un gruppo di ricerca, Carmen Bizzarri, professore di Geografia economico-politica dell’Università europea di Roma, nell’ambito di uno studio sul turismo scolastico commissionato da “Toscana Promozione Turistica”. Nell’indagine è emerso anche un altro elemento interessante. “In Italia ci ostiniamo a parlare di turismo scolastico, mentre nel resto del mondo si parla di turismo educativo (“educational tourism”, anziché “scholar tourism”). È una differenza sostanziale, perché nel turismo educativo il luogo è scelto in relazione alla crescita formativa della singola persona, quindi non è per forza di gruppo, pur essendo proposto da un’istituzione”. Ci si riferisce, per intenderci, agli studenti Erasmus, a quelli coinvolti nei programmi di scambio nelle superiori, alle scuole di lingua e ai simposi educativi per adulti. “Concentrati per lo più in città come Milano, Roma, Firenze e Venezia, sono categorie che non consideriamo come un target turistico, e invece lo sono a tutti gli effetti e per molte settimane, anche se di fatto non esiste – se non in pochi casi – un’offerta turistica impegnata ad attrarre questi flussi”.

È uno spazio ulteriore su cui investire, dando seguito ai significativi passi avanti già consolidati prima della pandemia sul concetto stesso del viaggio d’istruzione. Si diffonde sempre di più, infatti, il modello di un viaggio effettivamente fondato su obiettivi di apprendimento associati alla natura dei luoghi. Il concept rappresenta un deciso superamento del modello tradizionale, con la passiva visita guidata a musei e monumenti, quasi sempre vissuta dai ragazzi distrattamente e con il pensiero fisso alla movida serale. La parola chiave è laboratorialità: si tratta di tenere impegnati i ragazzi perché non si distacchino da ciò che vivono. Sono maturate negli anni esperienze interessanti e altamente formative, come quella che viene proposta a Pollica, paesino del salernitano riconosciuto come Capitale della dieta mediterranea, dove si propone un’esperienza particolare, in cui i ragazzi si cibano delle erbe selvatiche che hanno raccolto e analizzato in giornata. O in Costa jonica lucana e calabra, dove i ragazzi riproducono i manufatti in argilla della cultura magnogreca che visitano nei musei.

Altrove possono trovarsi a vivere l’esperienza quotidiana di un pastore, l’immersione nella fauna dell’ambiente sottomarino, le fasi di produzione dell’olio. Talvolta la proposta non è legata ai luoghi ma ai contesti, e così in un museo ad alta tecnologia sono chiamati a realizzare essi stessi dei prodotti digitali. Nota dolente: c’è anche chi non ha potuto vivere tutto ciò. In questi giorni stanno concludendo il percorso scolastico studenti di scuole superiori che per un quinquennio non hanno potuto vivere l’esperienza del viaggio di istruzione di classe. Neanche uno in cinque anni, prima per i divieti della pandemia, poi per i timori delle famiglie, adesso per i costi elevati che li hanno resi meno sostenibili. Un rito di tante generazioni che per loro è venuto a mancare. E le conseguenze, in termini di socializzazione, sono state concrete e visibili: gruppi di classe poco integrati, isolamenti e “blocchi” personali mai vinti, persino una evidente minore interazione tra ragazze e ragazzi. La gita (qui ci piace chiamarla proprio così) comporta tanti rischi, ma ha il merito di rompere il ghiaccio con compagni e insegnanti e di impattare su alcune cosiddette soft skills, come l’autonomia e la capacità relazionale.

Pino Suriano

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