Guerra e democrazia
Tutti i limiti del governo tecnico e la tentazione dell’emergenza

Sarebbe positivo se attorno all’ultimo articolo di Angelo Panebianco si sviluppasse un ampio confronto delle idee. Colpisce, nella più autorevole espressione del liberalismo odierno, il ricorso a toni caldi sulla fragilità delle istituzioni repubblicane minacciate nella loro tenuta dalla emergenza bellica, che alla vecchia coppia destra-sinistra sostituisce la nuova polarità occidentali-antiamericani.
La tesi dello studioso è che la riprovazione così ampia tra i cittadini degli aiuti militari a Kiev nasconde “una diffusa ostilità alla democrazia”. La simpatia per la Russia conferma la precarietà delle istituzioni liberal-democratiche e favorisce le avventure di chi “scientemente preferisce la tirannia”. La debolezza del legame di Conte e Salvini con i fondamentali valori occidentali potrebbe spingerli a forzature demagogiche. Qualcuno potrebbe sempre trovare, proprio nel clima pacifista che cresce, “la base di massa per qualche nuova avventura autoritaria”. Dinanzi al pericolo che sfida le istituzioni sotto assedio, si pone il problema di “arginare gli antidemocratici”. Allarmato per l’avanzata dei putiniani, che possono “prendere a bastonate questa fragile democrazia”, Panebianco pensa a contromisure efficaci. E scrive che, dinanzi al movimento degli “amici dei tiranni”, “si può solo tentare di sbarrargli la strada, di impedire, con i mezzi leciti che la democrazia mette a disposizione, che i suoi rappresentanti prendano il potere”.
Per la venatura, in certa misura tragica, che l’attraversa, la pagina di Panebianco fa venire in mente uno scritto di Hans Kelsen che ha per titolo “Difesa della democrazia”. Nel mezzo del crepuscolo della Repubblica di Weimar, il giurista si chiedeva come mai il monumento del costituzionalismo moderno stesse crollando con un sentimento popolare che guardava con “freddezza e indifferenza” alla Carta del 1919, pur così ispirata all’ideale democratico più avanzato. È anche oggi l’odio verso la Costituzione a serpeggiare nell’opinione pubblica che invoca la via della mediazione politica, il dibattito parlamentare per una valutazione dell’invio dei nuovi armamenti? Che politici sovranisti e populisti possano cinicamente sfruttare per i loro obiettivi ambigui una preoccupazione crescente per l’evoluzione del conflitto ucraino è possibile. Ma questo pericolo di una strumentalizzazione delle istanze pacifiste si presenta minaccioso perché le forze politiche leali non rappresentano con efficacia un sentimento ampio di cittadinanza che chiede il recupero della strada del diritto internazionale, la carta della mediazione.
Il governo sceglie la via del fatto compiuto, con viaggi oltreoceano senza un mandato politico. Nella comunicazione istituzionale non si va oltre la grottesca scelta tra il condizionatore e la pace. In questa congiuntura affiora la debolezza di un governo tecnico la cui funzione originaria è stata travolta dall’emergenza bellica, che è sempre la più politica delle situazioni critiche. La missione di un esecutivo in tempi di guerra è ben diversa dall’impegno rigoroso per l’allocazione di risorse ricevute dall’Europa in vista della modernizzazione del capitalismo italiano. Il passaggio dalla destinazione quantitativa delle risorse alla scelta della collocazione del paese in una guerra dalle conseguenze di sistema non è agevole e richiede un esplicito mandato politico.
Senza disconoscere la funzione positiva che in determinate situazioni emergenziali la parentesi tecnica ha svolto, affiorano i limiti strutturali di una conduzione tecnica del governo che tende a istituzionalizzarsi sino a spegnere il rumore fastidioso della rappresentanza politica. Proprio Kelsen metteva in guardia sui pericoli che la tecnica introduce nella logica della politica. “In un sistema politico il ruolo del tecnico può sempre essere solo un ruolo secondario. Ciò che conta nel sistema politico, innanzi tutto, è la determinazione dei fini sociali, mentre il tecnico non ne ha affatto la capacità. Solo dopo che si è deciso sul fine può subentrare – per la determinazione del mezzo appropriato, per raggiungere lo scopo posto – l’attività del tecnico. Nulla è più miope della sopravvalutazione del tecnico, nulla porta più sicuramente alla perdita del diritto di autodeterminazione che l’abdicazione della ragione politica a favore di un ideale di tecnicità, che è stato in ogni tempo una delle più potenti ideologie dell’autocrazia”.
Fino a quando il ricorso alla figura tecnica si colloca entro il mandato di un organo parlamentare che, non trovando maggioranze politiche omogenee, si affida ad espedienti compromissori per realizzare obiettivi circoscritti concordati, il quadro istituzionale, tra difficoltà e strappi, comunque tiene. Se però il tecnico sfida le competenze parlamentari e salta i controlli, nega il dibattito, si pongono evidenti problemi di coerenza dell’ordinamento. Peraltro una anestetizzazione della volontà popolare e dei suoi canali rappresentativi è quanto sembra auspicare Panebianco anche come soluzione per i prossimi scenari politici caratterizzati dall’incertezza circa la fedeltà dei possibili vincitori alle alleanze militari. Al pericolo di tenuta democratica, scatenato da ragioni di politica estera e di collocazione internazionale, egli risponde con il ritrovato della “democrazia protetta”. Questa richiede la preventiva opera di resistenza delle élite più responsabili dinanzi alla presa del potere dei sovranisti. E qui sorge l’aporia del discorso di Panebianco. Egli invoca la democrazia come bene fragile e però teme la sovranità popolare come una marea disordinata disponibile ad essere sedotta dagli amici degli autocrati.
Anche nelle pagine più drammatiche di Kelsen si poneva il problema circa i modi con cui la democrazia si difende dai suoi nemici e riconosce loro (e questo è il “suo destino tragico”) la possibilità di uno sviluppo nello spazio competitivo. Dinanzi al nemico che minaccia le forme della democrazia, intesa come procedura “della composizione dei contrasti, della reciproca comprensione su una linea mediana”, notava Kelsen, “ci si chiede anche se la democrazia non debba essere difesa anche contro il popolo che non la vuole più. Una democrazia che cerchi di affermarsi contro la volontà della maggioranza, di affermarsi con la forza, ha cessato di essere democrazia. Un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo. E non deve nemmeno tentarlo: chi è per la democrazia non può farsi prendere nella funesta contraddizione di ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia. Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda; nell’abisso si può portar con sé solo la speranza che l’ideale della libertà sia indistruttibile e che quanto più sprofonda con tanto maggior passione tornerà a vivere”.
Convivere con il principio di maggioranza e le sue incertezze sul vincitore della competizione è un imperativo che non può essere sospeso per ragioni superiori alla libera espressione del consenso. In verità, contro il rischio di derive dispotiche Panebianco auspica meccanismi di difesa leciti, non evoca soluzioni emergenziali (e quindi la forza), piuttosto il tecnico for ever. Il rischio di una chiusura esclusivamente difensiva nella cittadella assediata dai barbari di simpatie putiniane è, nondimeno, quello di non rappresentare le istanze reali della cittadinanza preoccupata dall’escalation militare, dalle conseguenze economiche della guerra. Si può gridare contro gli amici dei tiranni per costruire barriere legali, ma senza conquistare la fiducia del corpo elettorale nelle ragioni della democrazia non si schivano i pericoli che attanagliano la fragile repubblica. Il ragionamento di Panebianco, e la sua proposta di un contenimento del pericolo sovranista, poggia sul postulato secondo cui l’atlantismo coincide con la democrazia e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti sono di per sé identici a quelli dell’Europa.
La minoranza che in Italia avverte tale indelebile connessione è per questo chiamata a resistere, con tutti i mezzi leciti, alle formazioni sovraniste. È però un aspetto da dimostrare proprio la sostenibilità e liceità di una guerra declinata come scontro autocrazia-democrazia che rigonfia la minaccia dell’esercito putiniano, temuto oltre le sue effettive capacità aggressive e di conquista espansiva di altri territori europei. La guerra difensiva si converte sino alla generalizzazione del conflitto in nome di una emergenza democratica globale. Contro la metafisica che si presenta con il “culto di un irrazionale nebuloso” e la “oscurità mistica” di un capo che agita il “dispiegamento acritico e miracolistico della forza”, Kelsen invitava ad esercitare una “professione di democrazia”. Alla luce di un “razionalismo empirico critico” come quello kelseniano si dovrebbe oggi respingere ogni idea di una guerra metafisica (si tratta di confini, rivalità etniche, obiettivi strategici, calcoli economici) e appurare l’effettiva capacità di minaccia di Putin, il cui esercito dimostra una generale inferiorità tecnica, una debolezza nella disponibilità di armi più sofisticate, una limitatezza nella mobilitazione quantitativa di uomini.
I costi di un coinvolgimento italiano nella strategia bellica, che secondo le direttive anglo-americane dovrebbe trascendere la mera difesa immediata per essere tesa alla “vittoria” sul demone russo, sono di gran lunga superiori ai benefici di un soccorso esteso di paesi democratici alla difesa dell’integrità di una nazione aggredita. Non le risposte, ma le domande angosciose che Panebianco si pone vanno raccolte perché reale è il rischio che i dubbi crescenti sulla gestione del conflitto siano raccolti da movimenti che tendono a indebolire il laboratorio europeo.
Alle legittime perplessità sull’efficacia di un inasprimento bellico non si risponde con la chiusura nelle certezze di un’élite che, per difendere la scelta atlantica, percuote i pacifisti con i colpi di un americanismo ideologico. Serve un mutamento delle culture politiche dei governi troppo faciloni nel gestire l’emergenza (promessa irresponsabile di un ingresso immediato dell’Ucraina, paese in guerra, nella Unione europea). L’emergenza non deve rappresentare un momento di subalternità dinanzi alla regia di Biden, ma l’occasione per consolidare l’autonomia politica dell’Europa, che ha interessi, valori, progetti, spazi specifici e non può essere schiacciata dalle esigenze geopolitiche americane proiettate verso la guerra lunga per procura.
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