Tutti presunti innocenti, ma col rischio di recidiva. Quell’errore di sintassi Costituzionale

Il positivismo criminologico ha trionfato. Ad un secolo e mezzo dalla «bufera di empirismo» che rischiò di travolgere per sempre le ragioni del liberalismo penale, assistiamo alla vittoria postuma e forse definitiva di quella concezione letale. I principali motivi che le furono propri abitano stabilmente l’odierna legislazione penale, gli indirizzi giurisprudenziali, la prassi giudiziaria, il senso comune, tutti pervasi dalla convinzione che gli imputati in quanto tali siano inclini a commettere «nuovamente» delitti simili a quello di cui li si accusa, e per ciò vadano trattati come soggetti pericolosi da neutralizzare in nome della difesa sociale. Come allora, la capacità di impedire la ripetizione del crimine è la prestazione reclamata con insistenza parossistica nei confronti del sistema punitivo e, anzitutto, del processo penale, considerato quale suo più efficace avamposto.

Conviene ammetterlo senza riserve, per non intestardirsi a cercare chissà dove le premesse d’un dialogo aperto con la magistratura, per l’appunto orientata in larga parte al fine superiore di tutela della collettività dal delitto, alla pronta «risposta giudiziaria» alla domanda di sicurezza dei cittadini. Inutile fingere che il modo d’intendere i principi costituzionali sia condiviso nella comunità eterogenea degli attori della giustizia. Sarebbe un inganno, un’imperdonabile ingenuità. Basta prendere la presunzione di innocenza, giustificazione stessa di esistenza del processo penale, per toccare con mano quale distanza separi la volontà della Carta costituzionale (art. 27 comma 2) dai convincimenti di molti giudici e pubblici ministeri. Le espressioni miste di noncuranza e fastidio che compaiono sui loro volti, quando se ne parla in pubblico, lasciano scorgere il pensiero retrostante: possibile che qualcuno ancora rispolveri queste vecchie idee assurde, smentite dalla dura realtà, dalle statistiche, e utili soltanto a favorire una massa di astuti delinquenti?
Non c’è luogo più adatto, per portare allo scoperto questa diffusa opinione, delle misure cautelari disposte allo scopo d’impedire che l’imputato commetta altri reati.

Quasi nessuno osa mettere in dubbio oggigiorno che la custodia in carcere costituisca un «rafforzato presidio di difesa sociale» (Corte costituzionale, sentenza n. 17 del 1970), tanto ha attecchito la convinzione che gli istituti processuali fungano da indispensabile strumento di immediata profilassi criminale. Soltanto trascurando del tutto la portata della presunzione di innocenza si può ammettere il paradosso della prognosi di recidiva formulata quando manca, con la condanna irrevocabile, l’accertamento definitivo di responsabilità per il primo reato da cui desumere la capacità a delinquere del colpevole. E difatti, ancora a metà degli anni Novanta del secolo scorso, la Corte costituzionale poteva prendere clamoroso abbaglio predicando l’«estraneità» del principio «all’assetto e alla conformazione» delle misure cautelari (ordinanza n. 450 del 1995). Il più recente ripensamento in proposito non ha tuttavia portato ad esiti migliori.

La Corte parte infatti dalla giusta premessa per la quale, affinché le restrizioni della libertà personale dell’imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza, «è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena» (sentenza n. 265 del 2010). Sennonché, finisce poi col promuovere soluzioni normative che assorbono ogni stima sul rischio di recidiva dell’imputato nella valutazione anticipata, provvisoria e precaria di colpevolezza, compiuta dal giudice a processo in corso. Per una serie di delitti, il pericolo di reiterazione del reato viene desunto da massime di esperienza generalizzate, che si fondano sugli aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso osservato e nulla dicono circa la concreta vicenda del singolo individuo presunto innocente.

Questo itinerario argomentativo dimostra che la stessa Corte costituzionale, custode e prima interprete dei princìpi fondamentali, non è stata finora in grado di superare certi tabù, fortemente radicati sul terreno sociale e politico. Ne è riprova il referendum del 2022, quando non venne raggiunta la soglia di partecipazione degli elettori necessaria al successo del quesito volto ad eliminare la previsione del codice di rito (art. 274 lettera c) che collega l’intervento cautelare al pronostico sulla commissione di delitti della «stessa specie» di quello per cui si procede. Dopo anni di chiusura, timide e saltuarie posizioni di favore per le libertà individuali affiorano in sede parlamentare, dove un ordine del giorno deliberato all’inizio dello scorso mese di agosto impegna il governo a rimodulare la norma in questione escludendo che il pericolo di reiterazione del reato sia ascrivibile a imputati incensurati, così da raggiungere un migliore «bilanciamento tra presunzione di non colpevolezza e garanzie di sicurezza».

Errore di sintassi costituzionale in cui cade pure lo sparuto drappello di benintenzionati, anch’essi assuefatti all’idea – inculcata da certi cultori del diritto pubblico, piuttosto sensibili, dietro i giochi di prestigio della proporzionalità, alle istanze punitive – che tutti i princìpi possano essere relativizzati. Mentre la presunzione di non colpevolezza è un’entità nient’affatto graduabile, ma rappresenta una grandezza costante: non si può essere considerati più o meno innocenti. La Costituzione fissa a chiare lettere un solo momento in cui la condizione originaria di ogni cittadino, quand’anche gravato da un’accusa penale, viene meno, d’un colpo, senza flessioni anteriori: la pronuncia della sentenza definitiva di condanna.

È questo scomodo postulato che non si è mai voluto assimilare, che si cerca di annebbiare nel timore dei costi derivanti da un’autentica considerazione per quel contrappeso politico di matrice illuministico-liberale. Una cultura non a caso tenuta ai margini dalle discussioni in seno alla Corte costituzionale, come racconta candidamente un giudice nel suo diario pubblico sui retroscena delle camere di consiglio a palazzo della Consulta: recitava un biglietto, passato di mano in mano, che «il processo penale è cosa troppo seria per lasciarlo ai processual-penalisti». Costoro potrebbero infatti ricordare alcune scabre verità della storia. Per esempio, il fatto che l’esigenza di carcerazione preventiva fondata sulla costante pericolosità dell’imputato venne introdotta nell’ordinamento processuale tedesco dalla novella legislativa nazista del 1935. Qualcosa vorrà dire? O la sinistra ascendenza di questo dogma divenuto intoccabile non suscita alcun dubbio?

Serve un colpo d’ala, una nuova chiamata a raccolta di tutti coloro – giuristi, politici, cittadini – che prendono sul serio i princìpi costituzionali, attorno ad una duplice modifica dell’art. 274: per un verso, diretta a circoscrivere in modo tassativo il pericolo di commissione di delitti a determinate fattispecie incriminatrici, che tutelino beni della massima importanza; per altro verso, e più ancora, intesa a vietare che tale pronostico sia ricavabile esclusivamente – come in pratica succede oggi – dagli indizi riguardanti la responsabilità dell’imputato per il reato principale, non ancora accertata definitivamente. Chi ne avrà il coraggio in un’epoca – la nostra – regredita allo stadio del peggiore positivismo criminologico?