Twitter a pagamento non vuol dire di qualità così si introduce una discriminazione

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito su Twitter: giusto che il social network sia a pagamento? Favorevole l’economista Riccardo Puglisi secondo cui “i social avranno bisogno dei proventi degli utenti per rimanere in attivo”. Contrario invece Antonio Pescapè, Professore Ingegneria Informatica Federico II, che sottolinea come il “pay per use’ non vuol dire di qualità così si introduce una discriminazione“.

Qui il commento di Antonio Pescapè: 

Twitter a pagamento? Sono francamente perplesso. Certo Twitter è una piattaforma commerciale e quindi il suo attuale proprietario – Elon Musk – può decidere la propria strategia di mercato, innanzitutto in ragione di un mutato modello di business dei social network che, non riuscendo più a fare le enormi marginalità degli scorsi anni e non riuscendo più a fare gli stessi ricavi con la pubblicità, ha portato quasi tutte le piattaforme a rivedere il proprio posizionamento e contestualmente, purtroppo, a licenziare un gran numero di dipendenti.

Bisogna poi tenere conto anche di questioni tecniche legate principalmente a società terze che effettuano una scansione della piattaforma Twitter per raccogliere dati, contenuti e interazioni. La questione, pertanto, è complessa sia da un punto di vista economico che più strettamente tecnologico. Ma guardare a Twitter (e alle altre piattaforme) solo con la lente del mercato, a mio avviso, ci allontana da una questione centrale.

Per anni le piattaforme – grazie agli utenti a cui oggi si chiede di pagare – sono state padrone di uno spazio pubblico di discussione importante, luoghi privilegiati per diffondere e ricevere informazioni, strumenti di comunicazione e denuncia anche in situazioni critiche. E penso, ad esempio, a quanto successo durante episodi di violenza e censura in occasione di eventi di protesta come quelli che si verificarono durante la “Primavera Araba” tra la fine del 2010 sino al 2012 oppure alle reti di informazione e solidarietà che si creano in occasione di grandi eventi naturali avversi come terremoti, alluvioni o uragani. Oppure infine al ruolo delle piattaforme, e di Twitter in particolare, durante il grande evento pandemico Covid 19 e successivamente durante il conflitto Russia Ucraina.

Ritengo che un luogo di creazione di relazioni umane, di creazione di pensieri e contenuti, dove gli utenti (e non penso ovviamente a content creator professionisti, personaggi pubblici, o aziende) erano e sono si prodotto ma anche produttori e consumatori di contenuti; un luogo dove vi sia la condivisione e la circolazione di idee, pensieri o di qualunque altra cosa sia “frutto dell’ingegno” non dovrebbe essere a pagamento. Non credo, come sostenuto da alcuni, che il modello “pay per use” sia sinonimo di qualità, non mi piace affatto l’idea del “pay to be social”, pagare per esistere nel mondo immateriale dei social ed essere in contatto con amici o compagni di scuola o Università.

E con l’attuale policy che mostra meno tweet a chi non paga rispetto a chi ha optato per l’abbonamento si introduce a mio avviso una discriminazione importante, che non è verticale su determinate tipologie di contenuti a pagamento o creatori di contenuti bensì finisce per essere orizzontale e quindi indiscriminata. Insomma, in definitiva, sono perplesso e sostanzialmente contrario.