L'analisi
Udienze online? Roba da regime, così i populisti hanno abolito il diritto
Al peggio non c’è mai fine. E tuttavia, quando il peggio investe lo stadio avanzato della decomposizione vitale delle garanzie costituzionali, che cancella i sedimenti della progressione identitaria della nostra civiltà, l’inesorabilità del vecchio adagio non può indurre alcuna forma di rassegnazione. Pensavamo che l’impasto di cinismo demagogico e arcaico retribuzionismo punitivo, responsabile delle ipocrite soluzioni di facciata all’immane problema carcerario, costituisse la frontiera estrema della curvatura giustizialista sotto la quale si è sviluppata la produzione normativa della legislatura in corso.
Ci sbagliavamo. Quel limite è stato superato senza alcun ritegno dall’inedito monstrum del processo penale telematico. Strumentalizzando in chiave retorico/opportunistica la drammatica emergenza in atto, l’ultima e più preziosa perla della politica giudiziaria nazionale ha deciso di contendere alla pandemia il connotato di vicenda biblica, interrompendo d’emblée le “magnifiche sorti e progressive” dell’emancipazione del diritto e delle sue forme da logiche ed assetti di disciplina autoritari.
Col piglio interventista caratteristico di scelte percorse da arroganza corriva e per certi versi sfrontata, il governo in carica ha inteso, così, buttare alle ortiche l’ontologica dimensione del funzionamento conformativo del più delicato e gravoso fra i congegni secolarizzati di teologia politica e istituzionale: quello che ambisce a ricostruire – in nome del popolo e in conformità a criteri di giudizio predicabili di condivisione assiologica e razionale – la verità dei fatti e delle condizioni per i quali un individuo può essere privato di libertà e patrimonio, con effetti stigmatizzanti e inabilitativi che spesso si proiettano nella cerchia dei familiari e finanche di terzi, “colpevoli” di condividere col condannato affari ed interessi economici.
Com’è noto, infatti, il governo intende sospendere fino alla data del 30 giugno, termine che tuttavia rischia di essere spostato in avanti a causa della non pronosticabile evoluzione della pandemia – le condizioni di agibilità del giusto processo penale di matrice costituzionale. D’un colpo, questo viene a perdere le sembianze di luogo fisico di una comunicazione dialettica contestuale, smarrendo, con esse, la funzione di liturgia alla quale la democrazia costituzionale dei diritti affida il compito di celebrare – anche sul piano simbolico – il primato della “ragione discorsiva”. In altri termini, la materialità e la separatezza topografica dell’udienza è la metafora della sacertà laica dell’amministrazione della giustizia che, come nei “misteri” delle religioni ellenistiche ha bisogno di impedire confusioni contaminanti con l’ambiente profano (Cordero).
In pratica, a svanire è la conformazione materiale del giudizio e con essa, perciò, non solo la dimensione che ne ha fatto un paradigma epicentro di svariati registri narrativi, bensì – soprattutto – quel clima d’aula che integra la pre-condizione delle potenzialità performative della contesa dialettica. Costruire un processo nel quale ciascuno dei protagonisti partecipa “da remoto” significa virtualizzare un contesto comunicativo che proprio alla simultanea presenza fisica degli attori del contraddittorio deve la sua specifica capacità epistemica di strumento privilegiato ai fini di un’affidabile ricostruzione dei fatti e di un proficuo confronto di tesi antagoniste.
I rituali del contraddittorio nella formazione della prova – spina dorsale del processo accusatorio – hanno bisogno del “teatro” dell’aula di udienza, perché, come ha scritto Franco Cordero, essi “esigono acustica e ottica perfette”: da un lato, per consentire che l’esaminato sieda nel posto dove sia agevolmente visibile dalle parti e dal giudice; dall’altro, ma affinché venga garantita ai soggetti che vi prendono parte (testimoni, imputati, accusatore, difensore e giudice) di osservare e valutare le circostanze extralinguistiche che danno corpo alle forme non verbali della comunicazione. Il tono della voce, l’espressione del volto, il disagio o l’imbarazzo nella (e della) risposta costituiscono, di norma, formidabili indici di apprezzamento della genuinità della fonte, cosi come una sequenza incalzante di domande accompagnata dagli occhi puntati sul testimone può accrescere il carisma del contro-esaminatore e indurre un maggiore coefficiente di veridicità della risposta.
Si tratta, dunque, di aspetti niente affatto marginali, relegabili fra gli orpelli estetico-simbolici dell’agire giudiziario, ma, anzi, di configurazioni che intrecciano questioni di fondo del giudizio penale. Siamo, in sostanza, innanzi a una rottura della legalità costituzionale, traumatica poiché ne ribalta il significato di punto di arrivo della lunga tradizione che, a partire dal congedo della mentalità e delle istituzioni inquisitorie, ha traghettato il processo sulla scena pubblica, facendone punto di confluenza tra la dimensione antropologica di “mistero” e l’esposizione a pratiche di controllo dell’opinione pubblica.
Una rottura che segna il passaggio ad un ordinamento processuale dell’eccezione priva di base legale, dal momento che la sua disciplina risulta consegnata al potere regolamentare di un organo (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) interno al Ministero della giustizia. L’opposto, pertanto, di quanto prescrive l’art. 111 Cost. che assoggetta alla sola legge la conformazione normativa del processo. Un simile scempio ci pare sia stato denunciato con forza dalla sola voce dell’avvocatura, questa volta anche istituzionale, e, da ultimo, dagli studiosi del processo penale. Amareggia che all’appello manchi – con l’eccezione della corrente di Magistratura democratica – una presa di posizione della magistratura associata cui sarebbe stato doverosa l’intransigente rivendicazione del carattere intangibile (dei fondamenti) del modello di processo di cui è anzitutto essa custode.
Peccato! L’abbandono del nomos della modernità ai marosi delle pulsioni populistiche e di malintese esigenze di efficienza burocratico-aziendaliste delle pratiche di giustizia, che le frustrazioni dell’emergenza e del suo governo rischiano di rendere ancor più aggressive, potrebbe far divenire inesorabile il declino della civiltà occidentale se a prevalere dovessero essere l’indifferenza etica e il silenzio connivente.
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