Con l’avvicinarsi del G20 in Brasile, la prossima settimana, le speranze di chi pensava in un’accelerata nella ratifica del trattato tra Unione europea e Mercosur si stanno facendo sempre più evanescenti. Senza le perplessità last minute del governo francese, l’accordo di scambi commerciali tra Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e Bolivia (il Mercosur appunto) da un lato e Unione Europea dall’altro, sarebbe stato ratificato entro l’anno.

La sua entrata in vigore dal 2025, quindi, avrebbe suggellato la fine di un parto diplomatico durato un’eternità. Le sue fasi interlocutorie risalgono a un quarto secolo fa, infatti. Per dimensioni e ambizioni, si tratterebbe del più vasto accordo commerciale mai raggiunto. Coinvolgerebbe 780 milioni di persone, per un PIL aggregato di circa 20 trilioni di dollari. Inoltre garantirebbe l’eliminazione reciproca e progressiva dei dazi. Fino al 91% sui prodotti esportati dalla Ue e 92% su quelli sudamericani in ingresso nei nostri mercati.

Con l’aggiunta di una campagna di liberalizzazione dei servizi e un accesso più agevole per le imprese europee nei mercati latino-americani. Specie nei settori dell’ingegneria, costruzioni e tecnologie. In questo momento, se il no francese dovesse passare, sarebbe il presidente brasiliano Lula a trovarsi con più uova rotte nel paniere. Secondo uno studio del suo governo, l’abbattimento dei dazi europei potrebbe generare una crescita del 2% (circa 11 miliardi di dollari) dell’agricoltura carioca, che già rappresenta un quarto del PIL. In cambio di prodotti industriali finiti – frigoriferi, automobili, televisori – il Brasile ci fornirebbe di commodity quali allevamento, oli e grassi vegetali. Ma anche materie prime critiche, come litio e rame.

Sul fronte europeo il disappunto sul previsto buco nell’acqua è stato manifestato da Germania e Spagna. La prima manifattura europea naviga verso la recessione tecnica. E quello che meno le serve è un mercato che si chiude. Soprattutto ora che arriva Trump e mette i dazi. Madrid – dal suo canto – vede ancora nell’America latina la sua tradizionale profondità strategica, dove i rapporti commerciali sono facilitati da lingua, tradizione e amicizie. A far la frittata è la Francia, appunto.

Già a marzo scorso Macron aveva fatto notare che la struttura della partnership era precedente all’Accordo di Parigi del 2015. E che quindi non teneva conto delle sfide climatiche assunte successivamente. Questa obiezione dovrebbe far riflette sulla sincerità del sentiment ambientalista espresso più volte da Lula. È curioso che un maître à penser della transizione ecologica spinga per un trattato che sul piano green risulta in difetto. Soprattutto in termini di lotta alla deforestazione. Il governo francese ha proprio sottolineato questo paradosso. L’Europa non può varare un regolamento come l’Eudr per poi facilitare l’ingresso di materie prime il cui picco produttivo potrebbe tornare difficile da controllare in fatto di sostenibilità.

Comunque i motivi dell’opposizione francese sono da ricercare in casa. Quando l’inverno scorso gli agricoltori sono scesi in piazza in tutta Europa, sui cartelli dei paysan d’Oltralpe c’era un palese ammonimento affinché Bruxelles bloccasse il trattato. «Il Mercosur è la morte delle piccole aziende agricole», aveva tuonato Sylvie Colas, presidente della Confédération paysanne, una realtà sindacale orientata a un’agricoltura sostenibile e solidale. Quindi, per farla semplice, di sinistra. Quindi, ancora, vicina a Lula. Al netto di questo, merita ricordare quanto quelle proteste imposero un cambio di atteggiamento alla Commissione von der Leyen uscente, al punto da arrivare a concessioni senza precedenti e da influenzare in maniera significativa il voto di giugno.

In realtà l’agricoltura non è la sola a opporsi all’accordo. A dispetto dei sogni di Berlino di vendere auto tedesche a Rio e Buenos Aires, l’automotive e la relativa componentistica denunciano la mancanza di reciprocità negli scambi. Bassi costi di produzione e standard ambientali a maglie larghe permetterebbero l’ingresso sui mercati Ue, già saturati dal made in China, di prodotti sud americani. Problema che, stando alle imprese, le clausole speculari del trattato (mirror clauses) non riuscirebbero a risolvere. E, del resto, neanche in America Latina sono tutti favorevoli a quello che viene accolto come una nuova forma di colonialismo. La nostra manifattura di qualità – dicono – soffocherebbe le ambizioni di sovranità industriale locale, mentre le materie prime esportate verrebbero vendute a prezzi stracciati. Chiave di lettura ideologica, questa. È dai tempi di Colombo che ci accusano di farlo.

Ma la Francia ha ancora delle chance. Austria, Irlanda e Polonia le hanno fatto da spalla in questi ultimi mesi. Ma ora le serve un alleato forte. E se fossimo noi? Le Figaro ieri scriveva che von der Leyen non può permettersi il lusso di uno sgarbo a Macron ratificando un trattato che non piace all’Eliseo. Da tutto questo, Giorgia Meloni non ha altro che da guadagnarci.