La Procura di Torino ha aperto un fascicolo per indagare sulla morte di Moussa Balde, il 23enne originario della Guinea trovato morto impiccato nel centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi dove si trovava rinchiuso. Così, con il nome e il cognome, forse rischiate di non ricordarvelo perché i nomi stranieri faticano a fissarsi nella memoria e aleggiano leggeri come se fossero un inciampo avvenuto nella cronaca, Balde era quel ragazzo accerchiato e preso a bastonate, calci e pugni a Ventimiglia mentre chiedeva l’elemosina che fu registrato in un video. Dopo la sua morte (che abbiamo raccontato qui su Il Riformista) si sono affrettati tutti a dirci che no, che il problema non era che fosse rinchiuso nel Cpr di Torino e che anzi forse avesse addirittura rubato un cellulare, come se l’eventuale furto di un oggetto qualsiasi potesse giustificare un pestaggio a sangue.
Ma il punto è un altro: dopo il suicidio di Balde nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino qualcuno avrebbe potuto almeno sperare, al di là dell’indagine della magistratura, che almeno si rispettassero i diritti civili di base e invece la situazione rimane una giungla di violenza. Dall’area Rossa del Centro alcuni ragazzi detenuti stanno comunicando con alcuni volontari all’esterno raccontando di essere in sette in una stanza, con un bagno senza finestre e con una porta rotta. Le ore d’aria (per questi che non sono reclusi nonostante siano trattai illegalmente da reclusi) sono passate sotto la stretta vigilanza della polizia che li circonda. Chi non ha amici e parenti che possano portare dei vestiti puliti deve farseli passare dal Centro che distribuisce i cambi una volta alla settimana, spesso sporchi. Ci sono perquisizioni in continuazione e le umiliazioni e le intimidazioni sono continue e costanti.
Ci sarebbe una direttrice, a dire la verità, ma le poche volte che si fa federe è inavvicinabile e accompagnata dalla scorta, come se camminasse tra delinquenti che invece hanno l’unica colpa di non avere i documenti a posto.
Poi ci sono le udienze (accade a Torino come in tutto il resto d’Italia): giudici che non ascoltano i detenuti, non li fanno nemmeno parlare perché spesso l’interprete egiziano risulta incomprensibile e alla fine delle udienze l’unico risultato è un allungamento delle pene detentive, senza nessun ruolo degli avvocati.
Scrive l’associazione No Cpr Torino: «Per esempio, A., di origine marocchina, portato a Torino dal Cpr di Caltanissetta, fra due settimane finisce i tre mesi di detenzione. Ha visto la sua avvocata solo una volta, ovvero quando gli ha fatto firmare il modulo per il gratuito patrocinio. È a rischio di espulsione perché ora la frontiera è aperta, ma l’unica notizia che ha avuto rispetto alla sua situazione è stata la singola telefonata della legale per informarlo che aveva mandato il suo nominativo al consolato senza avere risposta. Un altro recluso marocchino è in sciopero della fame da quattro giorni proprio per la paura della deportazione. Continuano le resistenze ai tamponi, che aprono le procedure alle deportazioni stesse; due ragazzi tunisini, intimati a fare l’esame, si sono rifiutati di farlo proprio per non essere rimpatriati. Hanno paura di essere prelevati con la forza, e la notte non dormono, determinati a non farsi portare via».
Succede addirittura che quando si accende un litigio uno dei reclusi venga portato in isolamento e nella stanza vengano spostati gli stessi suoi litiganti. Dalle testimonianze risulta che il 24 giugno un ragazzo sia caduto provocandosi un trauma alle costole ma nessuno gli ha prestato le cure. Accade così, fino allo stremo, fino alla disperazione, fino a un suicidio di cui tutti si sentono sorpresi. Accade così quando muoiono i neri: muoiono ma non cambia niente, non se ne accorge nessuno.