Francesco, 27 anni, ha aperto il primo “Alveare” d’Italia a Torino, sette anni fa. Stefania, trentenne, dal 2015 gestisce “Alveare Impact Hub”, a Milano. Michel e Rossana hanno fondato l’Alveare di Assago, a Milano, nel febbraio di quest’anno, dopo che lei ha perso il lavoro a causa della pandemia da Covid-19. Gli “alveari” non sono le case delle api ma comunità di acquisto diretto tramite produttori locali. Il Covid – soprattutto durante il primo lockdown – ha impresso una forte accelerazione alla vendita diretta da parte di piccoli agricoltori e allevatori ma l’idea risale a molto prima.

Concepita da una start-up torinese alla fine del 2015, diventa realtà in Francia con il primo alveare d’Oltralpe, per poi diffondersi in tutta Europa: oggi la rete italiana de “L’Alveare che dice sì” alvearechedicesi.it conta 272 alveari (solo in Lombardia, la regione in cui il progetto ha preso più piede, ha più di cento gruppi di acquisto locali) e quasi 3.300 produttori che li riforniscono. «Si tratta di una piattaforma online che permette una distribuzione più efficiente dei prodotti locali», raccontano Rossana Bordonaro e Michel Crusco, marito e moglie, «favorisce gli scambi diretti fra produttori locali e comunità di consumatori che si ritrovano insieme, creando piccoli mercati temporanei a Km0», gli Alveari, appunto.

Come funziona? Lo spiega a Il Riformista, Rossana dell’Alveare di Assago: «Se sei un agricoltore, un artigiano o un allevatore e cerchi nuove possibilità di vendita diretta, puoi contattare un gruppo di acquisto locale a cui proporre i tuoi prodotti: la piattaforma online funzionerà come una vetrina per metterli in mostra, in modo trasparente ed equo. Mentre il gestore dell’Alveare – che ha il ruolo di raccordo tra produttori e consumatori, e al tempo stesso di garante – ti accompagna per la vendita e la distribuzione dei tuoi prodotti, occupandosi di sviluppare la tua clientela».
Le percentuali di guadagno dei produttori – esentasse – sono pari all’80% , mentre gestore e piattaforma online divideranno equamente il restante 20%.

Ci sono poche clausole da rispettare: per affiliarsi come produttori, occorre “produrre localmente”, comunque a meno di 250 km dal luogo di distribuzione dell’Alveare e “rispettare i valori de “L’Alveare che dice sì!”. Vale a dire: proporre prodotti che siano in linea con la stagionalità territoriale dell’Alveare e che provengano direttamente dalla propria azienda agricola (principio della filiera corta); comunicare con chiarezza i prodotti offerti, elencando dettagliatamente ingredienti, caratteristiche, origine e i metodi di produzione. «Sono concesse deroghe al km 0 – per esempio nel caso di prodotti Dop, Doc, Igp – ma non al principio della filiera corta», spiega Michel. «Sapere cosa mettiamo nel piatto, scegliere consapevolmente gli ingredienti, liberarci dalle tentazioni del 3×2 e del sottocosto al supermercato», conclude. Parola chiave: comunità. Creare legami tra consumatori e produttori, tra vicini, tra amici dei vicini: come si faceva un tempo, ma avendo la tecnologia come alleata.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi