Potrebbe essere chiunque di noi. Nessuno escluso. Questa è la sensazione, nettissima, che mi lascia la serata di Capodanno passata con i volontari dei City Angels di Milano. Donne e uomini fantastici, generosissimi, che anche la sera di San Silvestro si prendono cura dei loro ‘utenti’, come chiamano i tanti, tantissimi, troppi senzatetto che vivono al freddo e al gelo per le strade, e sotto i portici, di Milano. Cui prima servono la cena (a quelli che risiedono nel loro centro di accoglienza di Niguarda, sempre in overbooking per eccesso di richiesta), poi vanno a portare assistenza sulla strada. Dove, prima sorpresa, alcuni scelgono di stare. Deliberatamente. Perché i centri di accoglienza, ricordano loro, sono posti in cui hanno vissuto esperienze costellate di violenza e furti. Meglio il freddo e il gelo. È più sicuro. Il centro di accoglienza dei City Angels di Milano è molto ben tenuto. È concesso in comodato d’uso trentennale dal Comune, che rimborsa l’associazione in ragione di 18 euro al giorno per ogni senzatetto ospitato. Non bastano, ovviamente, e per di più le spese devono essere anticipate. Soprattutto, siamo a Capodanno 2024, e l’ultimo rimborso è datato marzo 2023.

Insomma, se vuoi dare una mano, devi potertelo permettere perché devi anticipare i soldi. Arrivo al centro di accoglienza un po’ in ritardo (a Milano piove, non c’è uno straccio di taxi in servizio, e Uber ci mette 20 minuti ad arrivare), e trovo tutti già seduti. Ai fornelli, a cucinare, c’è Jonathan Falcone, editore di professione, benefattore per passione, che come ogni anno da nove anni a questa parte ha appena rimediato 100 panettoni che verranno offerti a cena, ma anche dopo cena, quando dal centro di accoglienza ci si sposterà sulla strada, a offrire assistenza ai senzatetto che dormono all’addiaccio (“Questa è l’unica sera dell’anno in cui mi sento davvero utile”, dirà Jonathan a fine serata, a mezzanotte, tra spari di fuochi ed euforia che scorre, quasi smorzata, sullo sfondo del capodanno di questi volontari). In sala, a servire ai tavoli, un brillante chef come Filippo La Mantia, dedica a tutti un sorriso e una carezza (“Ho i figli grandi in giro per il mondo, mi fa piacere dare una mano”). Oltre lui, altri operatori dei City Angels, sorridenti. Seduti, a mangiare cotechino con lenticchie e patate, scaloppine, cannoli siciliani e panettone, gli ospiti di questo centro gestito da Mario Furlan, uomo concreto ed entusiasta, e dalla sua compagna spagnola. Molti di loro sono stranieri (ivoriani, egiziani, marocchini, anche un inglese di Newcastle con cui ricordiamo Alan Shearer, striker del Newcastle e della nazionale), alcuni italiani (siciliani, milanesi stessi). Con mia grande sorpresa, sono tutti discretamente di buon umore.

Philippe, ivoriano, tutta una sua certa simpatica eleganza, mi spiega la sua parabola in Italia e ringrazia tutti con un sorriso che sembra Eddie Murphy. Gli altri si prendono in giro. Sono compagni di vita da tempo, tutte persone abbastanza sole, che si fanno compagnia. Hanno bisogno, è chiaro, ma non sono bisognosi. Sono educatissimi, e hanno lo sguardo buono di chi ha sofferto. Tra loro, Salvo, siculo-eritreo come si definisce lui, sorridentissimo, e Filippo, siciliano, un tempo mafioso, 40 anni di carcere sulle spalle, oggi libero “dopo aver pagato il conto con la giustizia”, che incassa la battutaccia di Mariano, il quale passando gli dice scherzando: “Te ne dovevano dare 50 di anni, altro che…”. Sullo sfondo, in televisione, Sergio Mattarella tiene il suo discorso di fine anno. Qualcuno ascolta, qualcun altro no. La distanza tra bellissime parole di principio e il piano terra di queste persone ormai in pace con se stesse ma paradigma plastico di quanto lo Stato non sappia fare tutto quanto pretende di fare, è tutta in quel frame: l’istituzione tiene un bel discorso. L’Italia che soffre lo reputa tale: un discorso, appunto.

A Mario Furlan ora servono finanziatori per mantenere il centro. C’è qualche imprenditore che non fa mancare il suo sostegno generoso, ma urgono soldi e una madrina capace di rappresentare l’associazione e aiutarla nel fund raising. Alle 21,30 i primi ospiti salutano, ringraziano, e vanno a dormire. I volontari invece sono già sulla strada, e attendono che Furlan li raggiunga a piazza Fontana. Siamo a ridosso del Duomo, tra le grandi vetrine dei marchi di lusso, e c’è una distesa di gente che dorme nemmeno in sacco a pelo, ma solo con qualche cartone addosso. E che allora, chiede per favore ai volontari se hanno qualche coperta da lasciargli. Già, i volontari. Tutti con una pettorina che rassicuri i senza tetto che loro sono lì per aiutare, e con un nome in codice. Swat e Cia fanno i custodi, poi al pomeriggio le pulizie domestiche, infine i volontari. Lui, peruviano che si chiama Pedro, rincuora tutti i senzatetto che incontra e presso cui si china, caritatevole. “Anche io ero scivo lato in strada, e ho saputo tirarmene via. Adesso aiuto chi ancora non ce la fa”, ricorda.

E lì fuori, sotto al nostro mondo, ce ne è un altro, con le sue regole, un suo protocollo, le sue miserie, e anche i suoi gesti di nobiltà. I volontari parlano con questi signori, ne raccolgono amarezze e sofferenze, scherzano e ridono, il tutto offrendo cibo, bevande calde, coperte, abbigliamento che possa scaldarli. Mentre loro chiedono, sempre con questa gentilezza un po’ mortificata, biancheria intima che, non potendo lavare, usano e gettano di continuo. È una vergogna che in una nazione che ambisce a dirsi civile, ma che civile non è, ci siano persone costrette a dormire al freddo e al gelo, senza potersi lavare (anche se i City Angels sono dotati di un mezzo mobile che ha una doccia e gira offrendo ai senzatetto di poterlo fare), mentre buttiamo dalla finestra miliardi di soldi pubblici per assistere chi potrebbe ma non vuole fare una mazza. Questo, anche se quando poi ci parli, scopri che alcuni costretti non sono. “Sono in mezzo alla strada perché ho scelto di starci”, mi dice Gabriele, homeless emiliano che ‘vive’ a Milano-. “Nella mia vita precedente ero rimasto solo e soffrivo moltissimo la solitudine. Qui ho ritrovato una comunità, ho compagnia”.

O, come mi spiega Valentino, barba e capelli grigi da rockstar trasandata, begli occhi verdi vividi e stanchi, simpatico e caustico, grande voce che esibisce cantando, e ghigno da uomo consumato e ormai libero da ogni convenzione: “Io sono 40 anni che vivo in strada, non saprei nemmeno più dormire in un appartamento, ma ringrazio questi ragazzi, ci commuovono sempre”, dice parlando dei volontari, mentre guarda un video di Papa Francesco sul telefono di un suo amico. Perché è incredibile, ma a parte un giovane cretino che li insulta passando (peraltro, ripreso proprio da un suo amico, che gli intima di avere rispetto, e nel farlo lascia due euro nel bicchiere della carità di un senzatetto che avrà la sua stessa età) questi sono personaggi cui la gente vuole bene, cui la gente portava piatti cucinati a casa con le proprie mani. Tanto che diversi di loro, alla nostra offerta, rispondevano: “No grazie ho già quel che mi serve”.

Ma è incredibile per me ascoltare homeless italiani che sono istruiti, parlano un italiano perfetto, quasi forbito in alcuni casi. Pietro che spiega quanto non avere una residenza allontani il datore di lavoro; Angela, pugliese, che fa le pulizie negli hotel, come suo marito, che conti alla mano dimostra di non riuscire a ottenere un affitto e dunque vive in tenda di fronte alla Rinascente del Duomo, mentre moltissimi rumorosi immigrati festeggiano di trovarsi al centro del mondo che vogliono scalare, ma che non mi pare apprezzino molto, visto come si rivolgono a chi li ospita.

Chiunque di noi potrebbe essere uno di questi uomini e donne sfortunati eppure così pieni di dignità da rifiutare cibo e coperte, se già ne hanno, dicendo: “Offritene a chi ne è sprovvisto”, sempre ringraziando, e non avendocela con nessuno. Non sono persone che recriminano, non sono frustrate. Qualcuno si vergogna, altri sono mortificati, altri attendono una chance che se fossimo una nazione meno ingessata forse gli daremmo. Ma sono persone di una educazione che mi ha colpito e commosso. E che ti ricordano di distinguere tra inconvenienti e problemi, come sanno i volontari, che sono davvero l’Italia migliore, quella della pietà intesa nel senso più nobile del termine, della prevalenza della bontà sull’indifferenza, e della carità come iniezione di dignità, ma anche della totale assenza di giudizio. Chi lo fa perché ha commesso un errore e deve riparare; chi perché si dice egoista, e spiega che “fare del bene mi fa del bene”.

Ma tra volontari e senzatetto, anche se con storie e condizioni diverse, c’è una chimica, un’intesa: equilibrati, gentili, e riconoscenti gli uni agli altri. Con le cui vite si intrecciano in un racconto di miseria e nobiltà, restituendo una pagina molto toccante ed edificante a chiunque abbia l’occasione di viverla. Stavolta, è toccato a me, e ringrazio di cuore. La prossima, perché no, a qualcuno di voi. Vi farà bene. Come lo ha fatto a me. Buon 2024, con l’augurio di avere il coraggio di essere buoni. Non ce ne è da vergognarsene. E con l’ambizione di creare più opportunità per tutti. Perché solo così se ne esce.