Dodici anni, cinque mesi e tredici giorni. Questo è il tempo che la giustizia italiana ha impiegato per decretare definitivamente le responsabilità per l’uccisione di Stefano Cucchi. Il geometra romano di trentuno anni che nei primi mesi dopo la sua morte è stato variamente definito, da stampa e personaggi politici, come il “piccolo spacciatore di Tor Pignattara”, “anoressico, tossicodipendente, larva, zombie”. Nessuno potrà più dire adesso che Stefano è morto per colpa della sua magrezza, delle sue abitudini, delle sue debolezze. La sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri responsabili dell’arresto e del trattenimento di Cucchi sancisce la fine di una vicenda giudiziaria incredibilmente lunga e travagliata, con centinaia di udienze, numerose perizie, diversi soggetti imputati e un’attenzione dei media mai vista prima per un caso di abusi da parte delle forze dell’ordine.
Con l’associazione A Buon Diritto abbiamo conosciuto la famiglia Cucchi a una settimana dalla morte di Stefano, e studiando i primi atti d’indagine chiedemmo sin da subito di indagare su quanto accaduto la notte dell’arresto. E invece le indagini sono state dirottate per anni, sviate per spostare l’attenzione dalla caserma di carabinieri all’interno della quale, oggi lo sappiamo con assoluta certezza, Stefano ha incontrato la morte. Il processo di primo grado per i depistaggi messi in atto con l’intento di coprire le responsabilità degli operatori si è concluso giovedì scorso con una sentenza di condanna: otto uomini appartenenti all’Arma sono stati ritenuti colpevoli di favoreggiamento, calunnia, falso ideologico. Un’opera complessa di depistaggi durata anni.
Da una parte, quindi, non dovrebbero stupirci questi tredici anni impiegati per arrivare alla verità, dall’altra però, non possiamo non farne tema di riflessione. La vicenda di Stefano Cucchi è stata paradigmatica da molti punti di vista, ha permesso di svelare un sistema estremamente complesso, il funzionamento di una macchina ben rodata di azioni messe in atto a tutti i livelli al fine di coprire le responsabilità, ma ha anche rappresentato la possibilità di parlare pubblicamente di queste vicende e ha consentito una crescita della consapevolezza collettiva su temi che continuano a essere molto difficili da trattare. Di Stefano Cucchi si è parlato nei telegiornali, nei libri, nei film, la sua vicenda è stata rapidamente conosciuta a livello nazionale, approfondita e utilizzata per raccontare altre storie. La famiglia, e soprattutto la sorella Ilaria, sono diventati voce che chiedeva incessantemente verità e giustizia e, nonostante tutta la caparbietà dimostrata e l’attenzione ricevuta, c’è voluto un tempo enorme per arrivare a ottenerle, quella verità e quella giustizia.
Ma se allora ci sono voluti quasi tredici anni per arrivare a capo di una vicenda che ha provocato fortissime emozioni e scosso l’opinione pubblica, che è stata raccontata e analizzata, che esito possono avere le altre decine e centinaia di storie di abusi che non conosceremo mai? In questi anni alcune le abbiamo raccontate: Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Michele Ferrulli, Francesco Mastrogiovanni, Andrea Soldi, Mauro Guerra, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva. Vicende diverse, con molti tratti in comune, uno su tutti l’incommensurabile dolore delle famiglie che devono affrontare processi in cui spesso è la vittima a essere sotto accusa, la sua vita, le sue abitudini, le sue relazioni.
Lo scandalo suscitato dalla morte di un uomo che si trovi sotta la custodia dello Stato non sarà purtroppo sufficiente a far sì che storie come queste non accadano mai più. Ma se c’è una cosa che possiamo imparare dalla vicenda di Stefano Cucchi, e dalle emozioni che ci ha provocato, è che ora più che mai dobbiamo continuare a monitorare, fare domande, pretendere verità. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Stefano Cucchi ce lo ha insegnato.