Le elezioni per il Colle
Una donna al Quirinale, perché è così difficile la leadership femminile
Puntuale e fastidioso come una pioggia novembrina, nel giochino del Quirinale è comparso il tema “ci vuole una donna”. Una donna al Quirinale, a chi non piacerebbe? E giù dichiarazioni, risentite denunce della società maschilista, ispirati ragionamenti, e da ultimo l’immancabile appello delle intellettuali. Per non dire dello snocciolamento di nomi, plausibili o no. Si è cominciato con Liliana Segre, che, da donna intelligente qual è, si è subito tirata fuori. Altri sono seguiti. Molte donne (tra cui chi scrive) si sentono irritate, con stupore degli amici maschi – quelli in buonafede, intendo. Provo a spiegare. In primo luogo, le donne non sono identificabili come una categoria.
Non potremmo dire, senza far ridere, ci vuole un emiliano, o ci vuole un ingegnere, o ci vuole un filosofo. Allo stesso modo non ci vuole “una donna”. Le donne hanno nomi e cognomi. Se c’è una donna che ci sembri adatta a quel ruolo, diciamone il nome e cognome. Pubblicamente o no, secondo le opportunità. Nel 1999, le donne dei DS fecero una battaglia per Russo Jervolino, facendo arrabbiare non poco il segretario del partito. Che fosse giusta o sbagliata, oggi non saprei dire, vista l’ottima candidatura e poi presidenza di Ciampi, che prevalse. Ma fu una battaglia chiara e precisa, fondata sulla convinzione che Russo Jervolino avesse le caratteristiche e l’esperienza necessaria per il ruolo.
Probabilmente ci sono anche oggi donne in queste condizioni. Bisognerebbe però identificarle e sostenerle con chiarezza, non sotto la bandiera della “donna al Quirinale”. Non in un elenco di quelle che vi vengono in mente. Permettetemi di dirlo: ci sono moltissime donne di grandi meriti, ma poche che abbiano l’esperienza politica richiesta da un ruolo che è diventato sempre più delicato e cruciale.
E qui vengo al mio secondo punto. Il problema vero è che l’Italia è l’unico paese europeo occidentale che non abbia mai avuto una donna Presidente della Repubblica o del Consiglio, o leader di partito (con la singolare eccezione di Giorgia Meloni, che dimostra che qui non è questione di destra e di sinistra). Perché? Come mai? Per colpa dei nostri maschi patriarcali? Ma non credo che i maschi degli altri paesi siano più disposti a cedere il posto. Forse le donne degli altri paesi sono più combattive? O sono più pragmatiche e quindi più capaci di entrare nei meccanismi del potere? Probabilmente molto dipende dalla struttura dei nostri partiti, che ormai o sono personali o sono fondati su relazioni opache gestite dai capicorrente. In ambedue i casi è una struttura che premia l’obbedienza e il conformismo. Di uomini e di donne. Ma mentre gli uomini sono generalmente molto bravi, avendolo succhiato col latte e sviluppato nei gruppi di pari, a stabilire alleanze e a creare cordate, le donne, con poche eccezioni, tendono a fare squadra con gli uomini e non fra di loro.
Infine, l’ultimo punto. Non credo sia stata produttiva la tendenziale identificazione della promozione delle donne con la sinistra. Le donne della sinistra hanno spesso mostrato una cultura politica ispirata più all’ideologia che al pragmatismo. Una propensione legittima, ma poco utile a favorire l’indipendenza e il protagonismo di chi ne è portatrice; e che ha prodotto una concentrazione degli sforzi sulla parità numerica piuttosto che sulla costruzione di leadership. Il problema dunque, ben prima di una donna al Quirinale, è chiedersi perché in Italia sia così difficile e rara la leadership femminile. Su questo credo che dovremmo discutere, fuori della contingenza delle elezioni del nuovo Presidente.
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