“Una telefonata allunga la vita”, la campagna di Antigone contro i suicidi in carcere

Una telefonata allunga la vita. Così recitava una nota pubblicità nei primi anni ‘90, così recita la campagna promossa da Antigone in questi giorni di agosto. Una campagna con la quale si chiede alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Presidente del Consiglio Mario Draghi un atto con il quale si arrivi a consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. Le celle devono essere dotate di telefono come in altri paesi.
Una misura normativa, non legislativa, che andrebbe a modificare il regolamento penitenziario del 2000 e che perciò è fattibile anche in questa fase in cui al governo sono concessi atti di ordinaria amministrazione. Una misura che potrebbe aiutare a prevenire i suicidi. 47 sono quelli avvenuti nelle carceri italiane in questi primi mesi del 2022. Numeri alti, altissimi, drammatici, che mai prima d’ora si erano registrati. Neanche nel periodo di massimo affollamento del sistema penitenziario, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò l’Italia per aver trattato in maniera inumana e degradante le persone detenute.
Oggi non siamo ai livelli che portarono alla sentenza Torreggiani, ma in carcere non si vive di certo meglio. Il sovraffollamento non è così alto, ma è sempre un problema endemico. A fine luglio, nella media nazionale, c’erano oltre 112 detenuti dove ce ne dovrebbero essere 100. In alcune regioni siamo vicini ai 150. In alcune carceri ai 200. Sempre dove ce ne potrebbero stare 100.
La pandemia ha lasciato dietro di sé strascichi che forse si sono sottovalutati. Il governo – ottima iniziativa – ha approvato un bonus psicologico riconoscendo questi strascichi. Importanti risorse esaurite in poche ore.
In carcere, invece, il supporto psicologico è quello di sempre. Cioè poco, pochissimo. I dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone ci dicono che sia nel 2021 che nel 2022, la media si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Del resto questo personale si conta sulle dite di una mano e fa quello che può. Così come gli educatori e gli altri operatori presenti negli istituti di pena. Questo nonostante una popolazione che in molti casi arriva da percorsi di vita difficili, spesso con problemi psicologici o psichiatrici pregressi, in tanti casi con diagnosi di tossicodipendenza. In queste condizioni è dunque difficile percepire un disagio quando si crea.
La caduta del Governo Draghi ha interrotto un percorso di riforma che era iniziato, anche a partire dal lavoro della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal Prof. Marco Ruotolo. In quel lavoro erano indicate una serie di importanti interventi, alcuni più semplici altri più complessi da realizzare. Ma comunque tutti necessari. Che non sappiamo che fine faranno. È difficile essere fiduciosi nel prossimo governo, in quanto conosciamo l’idea di carcere e di pena che guida qualcuno dei possibili futuri membri dell’Esecutivo.
Tuttavia, nonostante questo, come detto all’inizio, c’è una cosa che si può fare e si può fare subito: aumentare il numero delle telefonate a disposizione dei detenuti. Come ricordavamo, l’attuale regolamento penitenziario prescrive 10 minuti a settimana per ciascun recluso. Nel 1975, quando fu approvato, probabilmente potevano sembrare sufficienti. Io non ero ancora nato all’epoca, ma ricordo che anche negli anni ‘80 le telefonate erano poche e per pochi minuti. Molto costose, soprattutto le interurbane (che per la cronaca scattavano anche se da Roma si chiamava in provincia). Oggi, a quasi 50 anni di distanza, quel tempo non ha nessun tipo di giustificazione e quel limite che forse all’epoca poteva sembrare rivoluzionario, oggi appare come un’afflizione. Sentire la voce di una persona cara (una moglie o un marito, il proprio compagno o compagna, una madre o un padre, un figlio o una figlia) in un momento di sconforto può essere d’aiuto a scacciare dalla mente pensieri suicidari. La pandemia di Covid-19 ci ha fatto capire, dopo anni di resistenze, che una maggiore disponibilità di telefoni e tablet, di chiamate e videochiamate, non mettono a rischio la sicurezza e non pongono problemi organizzativi insormontabili. Ma fanno bene ai detenuti e alle detenute.