Può avere due spiegazioni il fatto che “gli attacchi a Unifil” e “ai nostri soldati” siano oggetto di una pubblica esecrazione che simultaneamente, con toni analoghi e argomenti perfettamente fungibili, promana da destra, dal centro, da sinistra e da tutti i terzi poli di ogni ordine e grado. Può significare che l’accaduto è di così imprevedibile enormità, di tanta inoppugnabile evidenza nel disegno dei fatti e delle responsabilità, che nessuno può darne un giudizio diverso e sottrarsi all’obbligo della più urgente deplorazione. Oppure significa che una comune rinuncia al ragionamento e il conformismo di una pigrizia diffusa hanno preso il governo della scena e di tutti quelli che vi si agitano.
Se a proposito di una zona di guerra, punteggiata così dalle installazioni delle milizie filo-iraniane come dalle postazioni della cosiddetta forza di interposizione, le une distanti dalle altre decine o centinaia di metri, il ministero della Difesa affida alle agenzie di stampa la dichiarazione secondo cui “L’incursione (israeliana, n.d.r.) ha causato danni materiali, in particolare al cancello di ingresso della base”, vuol dire che forse sfugge la premessa: e cioè che lì c’è la guerra, appunto. Che è una cosa assai brutta (questo certamente devono riconoscerlo tutti), ma interviene in una situazione che prima del cancellicidio non presentava sereni panorami di pace. Salvo che per quelli – tantini, in effetti – molto poco impensieriti dal fatto che da lì, dove ora si massacrano le ringhiere e le telecamere, partivano migliaia di razzi e droni verso le trascurabili centinaia di migliaia di israeliani che inammissibilmente, dopo dodici mesi, il governo sionista ha avuto la tracotanza di voler proteggere.
Occorre intendersi bene sulle violazioni di cui si renderebbe responsabile Israele nel condurre operazioni militari idonee a coinvolgere personale dell’Unifil. Si può sostenere, rimanendo nel giusto, che si tratta di episodi da denunciare (magari con il ricorso più parsimonioso a definizioni come “crimini di guerra”). Oppure si può sostenere, sprofondando in un abisso di malafede, che lo Stato Ebraico s’è incaparbito senza giustificazione alcuna ad andare lassù, a passare il confine e dunque a sparare ai nostri guaglioni per poter proseguire indisturbato l’azione genocidiaria intrapresa a Gaza.
Teoria, quest’ultima, abbastanza remissiva davanti a un dato di fatto tanto plateale quanto, curiosamente, accantonato come un noiosissimo dettaglio: e cioè che durante l’annuale stillicidio di missili, razzi e droni dal Libano verso Israele si è registrata presso la comunità internazionale – come dire? – qualche timidezza nell’intimare a quelle milizie di farla finita e al Paese che le ospita, il Libano, di fare qualcosa per contrastarne il lavoro.
Da dodici mesi Israele chiedeva a quella cosa – la comunità internazionale – di fare pressione affinché cessassero i bombardamenti che hanno incenerito la Galilea e fatto sessantamila profughi. Per una sola ragione non ha trovato ascolto: perché quei bombardamenti, per l’Onu come per Hezbollah, erano la sanzione retributiva che Israele doveva sopportare per la guerra di Gaza. E Unifil era adibita a guarnigione di quel sistema sanzionatorio. Non è una ragione sufficiente a giustificare che sia presa di mira. È una ragione sufficiente a rimuoverla.