È un fatto sicuramente positivo che a Scampia sia stata aperta una nuova sede universitaria dedicata alle professioni sanitarie e destinata (così pare) anche a svolgere funzioni di presidio assistenziale per la cittadinanza. Un passo avanti quindi nella direzione del recupero delle periferie, ma non basta: la città di Napoli nel suo complesso, e non solo le sue periferie, resta ancora lontana dagli standard di modernità tipici di una metropoli europea. E Napoli non è città moderna perché non ha un popolo moderno.

Lo aveva compreso Pier Paolo Pasolini quando descrisse il popolo napoletano come una “tribù” che rifiutava e negava la modernità, più simile ai “Tuareg del deserto o ai Beja della savana” che ad un popolo europeo. Pasolini vide una tribù e non un popolo, poiché appunto non esiste neppure un popolo napoletano, se per popolo intendiamo una collettività culturalmente e socialmente omogenea in grado di realizzarsi e riconoscersi come una unità di ordine civile e politico. La distanza tra il Vomero e Scampia o San Giovanni è abissale se misurata in termini di identità culturale, di opportunità, di stili di vita e persino di dialetto.

Non esiste qualcosa di simile in nessuna città dell’Occidente sviluppato. Man mano che gli spazi di emancipazione e di mobilità si sono ridotti, questa distanza è aumentata ed è ora divenuta irrecuperabile. I due mondi separati di Scampia e del Vomero si sono incontrati solo perché Scampia è stata per anni una grande piazza di spaccio che ha assorbito il denaro della gioventù dorata vomerese in cerca di emozioni forti. Ma le tribù dei due mondi sono rimaste separate, destinate ad inconciliabili vite parallele che raramente si incontrano (forse solo negli eventi sportivi, vissuti anche diversamente).

Le tribù partenopee esistono perché le classi dirigenti napoletane non sono mai state tali, non hanno mai assunto una funzione unificatrice popolare e di fatto si sono comportate come corpi estranei nel contesto sociale. È questa la vicenda storica della grande intellettualità napoletana, capace di dialogare con l’Europa colta, ma in gran parte (tranne alcune rare eccezioni) incapace di comprendere ed identificarsi completamente con i ceti popolari (o tribù) che pretende di rappresentare e difendere, ma che in realtà non conosce e che forse teme fortemente. È la sindrome del 1799: l’astratto e superficiale giacobinismo (di cui de Magistris è stato un ultimo roboante ed eloquente esempio) che tenta di interpretare le presunte esigenze di modernizzazione del popolo-tribù napoletano e che poi ne resta vittima.

Una storia che si ripete intatta da due secoli. Al fallimento del giacobinismo subentra il paternalismo “borbonico”, più realistico, più disilluso, ma che condanna all’immobilismo, alla conservazione, al privilegio di casta. Come un pendolo, la storia di Napoli oscilla tra scatti giacobini e rigurgiti conservatori, ma la città resta perennemente sospesa nel limbo, senza riuscire a realizzare integrali processi di modernizzazione.  Anche l’università a Scampia è uno scatto verso la modernità, o piuttosto verso la normalità, di un quartiere che è di fatto sotto il controllo delle feroci tribù\clan della criminalità organizzata, e sarà, malgrado le buone intenzioni, un altro “Forte Apache”, un avamposto di civiltà nel contesto del degrado, così come è stato l’insediamento di San Giovanni, o altre operazioni di innesto, in cui non si costruisce l’edificio dello sviluppo dalle fondamenta, ma si pretende di costruire direttamente la soffitta.

Interventi esogeni che sono destinati a non mutare il contesto che spesso resta indifferente e per certi aspetti anche ostile. Qualcosa di analogo è accaduto anche in politica, quando l’ex rettore del più grande ateneo del Sud è stato investito della carica di sindaco della capitale del Mezzogiorno. Un passo in avanti eccezionale per una città abituata alle macchiette della politica, ma che è stata accompagnata da una grande astensione, e che ha ridotto il fenomeno ad un movimento di élite e di clientele politiche, ma non ad un movimento di popolo. L’innesto modernizzatore non funziona se non è accompagnato da politiche di sviluppo e di coesione sociale, e se non diventa popolare. C’è la bella soffitta, ma manca tutto l’edificio che dovrebbe reggerla.

E l’edificio si costruisce garantendo migliori condizioni di vita nelle periferie abbandonate come nel centro storico, a cominciare da una più decisa azione di repressione della criminalità organizzata e dal serio potenziamento del sistema scolastico: legalità ed istruzione sono i veri elementi di rottura, innescano elementi endogeni di sviluppo, creano le condizioni per trasformare le tribù in un popolo.  Oggi la probabilità che un bambino proveniente da una famiglia di Scampia o di San Giovanni, che sopravvive grazie al reddito di cittadinanza, possa varcare, tra qualche anno, le soglie della nuova sede universitaria per ascendere alla nobile professione di medico, è davvero molto bassa. Sarebbe ipocrita negarlo. Una politica popolare dovrebbe pensare innanzitutto a questo e non avere la presunzione di celebrare la costruzione di soffitte o l’insediamento di Fort Apache in partibus infidelium.