Il gioco delle nomine
Uno vale uno, tutti valgono zero: il governo naufraga in Calabria

Non c’è nemmeno bisogno di entrare sul personale per capire che il caso Calabria ha un significato paradigmatico. E se l’assunzione di responsabilità del Presidente del Consiglio, che taluno legge come una mossa politica, rappresenta comunque un gesto cui va reso onore, non basta purtroppo a cancellare la drammaticità dell’accaduto. In questa vicenda emerge tutta la tragedia di un sistema istituzionale in estrema difficoltà, per non dire al collasso. E non a causa della pandemia.
Intanto perché il problema viene da lontano. Il Commissario da nominare, dopo i tre nominati e saltati nello spazio di un mattino, è infatti colui che dovrebbe “attuare il piano di rientro dai disavanzi del servizio sanitario della Regione Calabria” (art. 4 d.l. 159/2007)”. Sono ormai anni che questo obiettivo è all’ordine del giorno della politica calabrese e nazionale. Con un succedersi di commissari iniziato ben prima della vicenda di questi giorni. E allora la prima domanda è: ma com’è possibile che una regione sia per anni commissariata nel settore, quello sanitario, che impegna la stragrande maggioranza delle risorse e delle politiche regionali, senza che il problema si risolva? Il covid ha solo portato al parossismo una situazione strutturale che né la politica regionale, né il governo nazionale sono stati in grado di risolvere.
Tanto basta per mostrare quanto superficiali e semplificatrici siano le polemiche di questi giorni sull’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni. Perché in questa lunga e annosa vicenda, le responsabilità sono ben ripartite tra tutti i livelli di governo.
Inoltre i sostenitori delle magnifiche sorti e progressive di un neocentralismo dovrebbero riflettere sul fatto che molti dei problemi non derivano dal decentramento ma dalla debolezza delle istituzioni centrali, che pur avendo sulla carta strumenti e mezzi (costituzionali) per imporsi sulle patologie regionali, non sono in grado di farlo, perché troppo spappolate politicamente e istituzionalmente. E quanto è accaduto in Calabria ne è l’ennesima prova. Infine una riflessione sulla cultura di governo. Qualcuno aveva voluto farci credere che merito, reputazione e capacità ormai non contassero più nulla, che “uno vale uno” e tutti sono intercambiabili. Per cui scegliere può essere questione di un attimo. Tanto, appunto, uno vale l’altro.
All’evidenza non è affatto così. Perché se il principio “uno vale uno” è al cuore dell’idea democratica dell’eguaglianza politica dei cittadini, e dunque si applica, quello sì, alle elezioni, finisce per essere una bestemmia allorché non si tratta più di scegliere i politici, ma coloro che debbono assumere compiti di amministrazione e gestione. Lì la competenza conta eccome. E, anzi, tutta la Costituzione (a partire dall’art. 97 e 98) è innervata di principi volti ad assicurare che la selezione del personale sia fatta per trovare sempre quello che “vale più” degli altri. Quello cioè che merita di più.
Si è scritto tanto sulla Calabria, e certo la questione lo meritava, ma forse si dovrebbe riflettere sul fatto che la Calabria, parafrasando Sciascia, è una metafora di problemi molto più grandi che sopravanzano persino gli enormi problemi di quel perimetro geografico di terra.
Se un paese vuole essere degno di questo nome l’infrastruttura umana, in termini di capacità, reputazione e merito, di chi sceglie e di chi è scelto per amministrare le nostre vite (perché di questo si tratta) è cruciale. E per far ciò, ci vuole tempo e pazienza, investimenti, ma anche competizione. Perché il merito vive della competizione, trasparente, concorrenziale, responsabile. Finché non capiremo questo, abbandonando le vuote giaculatorie sull’importanza della formazione, la girandola delle scelte sbagliata rischierà di rappresentare solo la punta di un iceberg che ci ostiniamo a non voler guardare. Anche per continuare a rimuovere la nostra impotenza a risolvere i veri problemi.
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