È ragionevole affermare che si possa abusare di un atto, se l’esercizio di quell’atto è obbligatorio? Ecco una bella domanda, la cui apparente astrattezza si stempera immediatamente se il riferimento è all’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero. D’accordo, l’obiettivo che noi di PQM ci siamo dati è quello di divulgare, cioè di rendere comprensibili anche ai non tecnici della materia, temi giuridici e processuali di una certa complessità, ma qui forse abbiamo un po’ esagerato.

L’uso politico dell’azione penale da parte delle Procure

Non ce ne vorrete, amici non giuristi, se la lettura sarà un po’ più impegnativa del solito, ma il tema è in realtà di scottante attualità. Perché va al cuore di una polemica che da decenni ormai ci accompagna quasi quotidianamente: quella dell’uso “politico” -dunque, dell’abuso- dell’azione penale da parte delle Procure. Avete presente? La giustizia ad orologeria, l’uso delle indagini contro questo o quel partito politico, eccetera. Come risponde, indignata, la Magistratura a quelle accuse? Nessuna tempistica preordinata, nessuna faziosità politica: l’azione penale è obbligatoria; dunque iscrivere Tizio o Caio nel registro degli indagati, chiederne la custodia cautelare o il processo, sono solo e sempre atti dovuti.

“Facciamo solo il nostro dovere”, ma non è così

Noi in questo numero facciamo un piccolo viaggio nella sempre meno tollerabile ipocrisia che da sempre alimenta il mito dell’azione penale obbligatoria, e nella connessa pretesa (da parte della magistratura) di fare di questa obbligatorietà, voluta dalla Costituzione, lo scudo dietro il quale si vorrebbe far salva una sorta di immacolata verginità, di asettica e virtuosa terzietà di quel formidabile potere affidato nelle mani dei Pubblici Ministeri. Facciamo solo il nostro dovere, dicono. Ma non è così, non può esserlo. Scegliere se mandare avanti prima questa o quella indagine; selezionare questa o quella notitia criminis; qualificare un fatto come questa o quella ipotesi di reato; valutare la opportunità se esercitare l’azione nei confronti di un esponente politico prima o dopo l’evento elettorale; tutto ciò, e tanto altro ancora, è puro esercizio discrezionale.

L’invocazione della obbligatorietà dell’azione penale come garanzia di terzietà e di “apoliticità” dell’azione del PM finisce allora per assumere connotazioni grottesche e perfino irridenti, che si traducono nella pretesa di insindacabilità del proprio agire. Naturalmente, e per converso, nessuno intende legittimare una lettura pregiudizialmente ispirata all’idea che una Procura agisca sempre, nelle inchieste sensibili di natura o comunque con ricadute politiche, animata da uno spirito di fazione, o da intenti strategici. Ma al di là di queste banalizzazioni inaccettabili, restano almeno trent’anni della nostra storia segnati dalla constatazione, difficilmente contestabile, del ruolo sempre più politico acquisito nel nostro Paese dalla magistratura inquirente, e dunque dal frequente abuso -nei termini che ho sopra delineato dell’esercizio dell’azione penale. Tematica che, sia ben chiaro, supera anche i confini nazionali, a conferma di come il tema sia molto serio, ed assuma connotazioni di carattere generale che meritano di essere approfondite. Leggete in quarta pagina la incredibile storia della indagine giudiziaria contro il Ministro della Giustizia francese, avvocato penalista di grido assai sgradito alle toghe transalpine, e capirete che -almeno- possiamo sentirci un po’ meno soli. Ma non venitevene fuori con il solito “mal comune, mezzo gaudio”, perché ci fareste arrabbiare davvero. Buona lettura.

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