La competizione tra virus e sistema immunitario di difesa degli organismi superiori presenta analogie con certe forme di vita selvatica. Alcune specie di animali carnivori educano la prole a procurarsi il cibo partendo dalla situazione più semplice e favorevole, per poi arrivare progressivamente a insegnare la caccia vera e propria. Dopo lo svezzamento, i cuccioli cominciano a essere nutriti con bocconi di carne già pronti per essere masticati e ingeriti. Il passo seguente consiste nel portare al cucciolo la preda intera, perché impari a riconoscere le parti commestibili. Infine, quando il cucciolo, ormai cresciuto e irrobustito, inizia a essere in grado di rincorrere e di ghermire la preda da solo, la madre lo conduce verso esemplari debilitati o malati, che sono in grado di opporre una minore resistenza. Infatti, se un predatore inesperto si scontrasse con una potenziale preda giovane e vigorosa, i ruoli potrebbero invertirsi. Un giovane leone potrebbe facilmente essere sopraffatto da un bufalo adulto.

Concluso il prologo naturalistico, veniamo alla questione che agita i nostri sonni. Quando usciremo dalla condizione in cui ci troviamo e potremo tornare alla nostra vita consueta, a cui abbiamo scoperto di essere tanto affezionati, senza il pericolo incombente del contagio? Chi ha subito il Covid19 in forma acuta, anche se ne è uscito, lo descrive come la peggiore esperienza della vita. Facciamo il punto della situazione.

Il Coronavirus pandemico, battezzato Sarscov2, prende il nome dalla corona che appare quando è osservato al microscopio. Infatti, nell’immagine fotografica bidimensionale, le spine che spuntano dalla superficie sferica del virus, sembrano decorazioni sporgenti da una sagoma circolare. Queste spine però sono tutt’altro che decorative, perché i virus badano poco all’estetica e molto alla funzionalità. Le spine sono strutture (proteiche) in grado di individuare i punti di attacco situati sulla superficie della cellula nella quale il virus vuole introdursi. Entrare nella cellula e parassitarla è la prerogativa dei virus. Un virus non può riprodursi autonomamente e ha bisogno di sfruttare l’apparato riproduttivo della cellula, costringendolo a generare altri virus. Perché la cellula presenta queste “zone di attacco”, offrendosi inerme al virus? Le zone di attacco sono come delle serrature e la spina del coronavirus è la chiave che le apre.

Ma è una chiave contraffatta, una copia conforme di quella vera, per la quale erano state predisposte le serrature sulla parete cellulare. Una cellula è come un’officina che contiene i macchinari e le sorgenti di energia per mantenersi in vita, svolgere le funzioni a cui è adibita e riprodursi. Le materie prime necessarie alla sua attività, però, le deve ricevere dall’esterno. Come fa la cellula a capire se una certa sostanza è utile, e quindi farla entrare, o inutile, o magari addirittura dannosa, e quindi lasciarla fuori? Una cellula non ha occhi e non può vedere le molecole, ma ha dei sensori chimici. Se la molecola che arriva sulla superficie è quella adatta, i sensori la riconoscono e la fanno entrare. Quindi è come se il sensore fosse una serratura e la molecola la chiave. Serrature e chiavi di natura chimica, ma pur sempre serrature e chiavi. Le spine del Sarscov2 hanno una composizione chimica analoga a quella di una molecola utile al metabolismo della cellula. Quando il virus arriva in contatto con la parete cellulare, inserisce la chiave falsa e la cellula fa come i Troiani col Cavallo, spalanca le porte e lo accoglie col suo carico fatale.

E allora torniamo nel bosco e ai tre gradi di educazione alla caccia. Quella al Coronavirus, da parte del sistema immunitario, è una caccia. Una caccia all’invasore. I cuccioli che non hanno mai affrontato un avversario nel pieno delle sue forze devono apprendere come riuscire a farlo attraverso delle simulazioni. Allo stesso modo, per il sistema immunitario la vaccinazione rappresenta una simulazione, una battuta di caccia in condizioni controllate, durante la quale affronta un nemico meno temibile di quello che potrebbe presentarsi in futuro. L’incontro con una versione indebolita dell’avversario insegna al sistema immunitario come si dovrà comportare quando la battaglia sarà reale, e non più soltanto simulata. Come per i cuccioli dei predatori, le possibilità sono tre: addestrarsi con pezzi di virus, con virus morti, oppure con virus vivi, ma indeboliti.

Nei casi in cui il sistema immunitario manifesti una reazione efficace a frammenti di virus inoculati, o a singole proteine di quel virus, la prima soluzione è più facile e preferibile. In subordine, può essere adatta la seconda strategia che consiste, ad esempio, nell’immettere un virus sprovvisto del suo contenuto genetico, cioè una specie di fantoccio con le sembianze del virus. Se però in entrambi i casi la reazione immunitaria non risulta soddisfacente nei confronti di un determinato virus, allora si è costretti a usare un virus indebolito, che quindi possieda una ridotta capacità di infezione.

Il vaccino della Pfizer, di cui è stato annunciato l’ingresso sul mercato farmaceutico nelle prossime settimane, sfrutta una variante del primo metodo, quello dei pezzi di virus, e lo fa in una maniera originale e ingegnosa. Abbiamo detto che le spine sono lo strumento che il Coronavirus usa per ingannare la cellula e penetrare al suo interno, infettandola. Quindi sono le spine a dover essere riconosciute e neutralizzate o, meglio, la proteina -contenuta nella spina- che permette al virus di imbrogliare la cellula. Ricordo che le proteine sono sintetizzate all’interno delle cellule, da macchine molecolari (i ribosomi) che eseguono le istruzioni fornite da filamenti chiamati RNA-messaggeri, come i primi telai a vapore tessevano le stoffe leggendo delle schede perforate.

L’idea dei tecnici della Pfizer è stata di realizzare un vaccino che non contiene direttamente le proteine delle spine del Coronavirus ma, piuttosto, l’RNA-messaggero corrispondente. In pratica, il vaccino fornisce alle nostre cellule le istruzioni su come produrre autonomamente queste proteine. Proteine che, una volta rilasciate dalle cellule, indurranno la reazione del sistema immunitario e la generazione di anticorpi specifici. In pratica, è l’alternativa proposta da Confucio: piuttosto che donare ad un uomo un pesce, insegnagli a pescare: invece che dare al sistema immunitario dell’organismo una proteina, dagli le istruzioni per produrla da solo!

Ma… e funziona? Pare di sì. Dall’analisi dei test effettuati, l’efficacia è di circa il 95%, cioè il 95% di coloro che sono stati vaccinati è risultato in seguito immune all’infezione. Per ora siamo solo agli annunci, ma la procedura di certificazione da parte delle autorità sanitarie è già stata avviata. Quindi, se è pur vero che l’oste sostiene sempre che il suo vino è ottimo, in questo caso non gli conviene mentire, perché c’è già una squadra di sommelier pronta a smentirlo, con danno e scorno dell’industria farmaceutica eccessivamente entusiasta del proprio vaccino.

Insomma sembra proprio che ci siamo, finalmente. È vero, questo vaccino non è perfetto, deve essere conservato a temperature di circa -70° e dovrà essere somministrato un richiamo a breve distanza di tempo dalla prima vaccinazione. Però è l’inizio della fine per il Sarscov2 e del ritorno alla normalità per tutti noi. Quindi, armiamoci di buona volontà e sforziamoci di sopportare ancora per qualche tempo le norme sanitarie imposte -per quanto pesanti e sgradevoli- perché c’è luce in fondo al tunnel.