Un’aquila, rimasta prigioniera di bracconieri fin dalla nascita in una voliera tanto piccola da poter appena allargare le ali, fu scoperta durante una perquisizione e presa in custodia da alcuni guardiacaccia. Era inetta al volo e quindi incapace di procurarsi il cibo. Era stata alimentata con bocconi di carne in scatola per cani e non aveva sviluppato l’istinto di caccia. Fu consegnata a un gruppo di ornitologi della lega per la protezione degli uccelli perché fosse rieducata. Con tanto tempo e tanta pazienza riuscirono a insegnarle a volare. Quello, anzi, fu relativamente semplice, perché l’aquila, nonostante la muscolatura fosse parzialmente atrofica sbatteva comunque le ali. Il problema più grande fu di farle capire come catturare le prede che le avrebbero consentito di provvedere a sé stessa, quando sarebbe stata liberata.
Dovevano insegnarle a riconoscere una lepre. L’aquila non ne aveva mai vista una e quindi non avrebbe saputo associare l’immagine di una lepre all’idea del cibo. Bisognava procedere per gradi e fare in modo da creare questo legame. Iniziarono quindi ad alimentarla attaccando i bocconi di carne su una lepre di peluche. L’aquila capì presto che ora il cibo era somministrato in modo diverso e che, per mangiare, avrebbe dovuto beccare la finta lepre. I rieducatori passarono quindi alla fase successiva. Invece di porgere la lepre all’aquila, attaccarono il peluche a una corda che veniva riavvolta su una carrucola a molla, in modo che sfrecciasse rasoterra, mentre l’aquila era in volo. L’istinto dell’aquila cominciava a essere risvegliato e la sua vista acutissima le consentì ben presto di individuare la sagoma della lepre, anche se si muoveva nell’erba alta. E così si arrivò al passo seguente. Invece di una lepre finta cosparsa di bocconi, attaccarono alla corda una lepre morta. Stessa procedura. La lepre era trascinata rapidamente, ma l’aquila aveva capito l’arcano e cominciò a gettarsi sulla preda.
L’ultima fase ve la risparmio perché, a volte, le necessità di natura confliggono con la nostra sensibilità e mi limiterò a ricordare che predatori giovani o inesperti attaccano di preferenza prede malate o stanche. Il nostro sistema immunitario si comporta nei confronti di un agente patogeno (un batterio o un virus) come l’aquila da (ri)educare. Il metodo utilizzato per educarlo è il vaccino. La filosofia del vaccino ricorda vagamente quella dell’omeopatia (a dimostrazione che ci può essere del buono anche in teorie strampalate e arbitrarie). Similia curantur similibus, i simili curano i simili. Mitridate, Re del Ponto (l’attuale Turchia settentrionale), applicava questa teoria: temendo sempre di essere avvelenato, assumeva piccole dosi di veleno ogni giorno, in modo da abituarsi all’intossicazione e diventarne immune. Il nostro sistema immunitario si comporta nei confronti del vaccino come Mitridate col veleno, con una differenza importante, che in generale basta una sola esposizione (o poche) al batterio o al virus per acquistare la resistenza. Date all’organismo una piccola quantità di un agente patogeno e il sistema immunitario dell’organismo imparerà a identificarlo, in modo da riuscire a riconoscerlo quando dovesse ritornare una seconda volta. Ma, come Mitridate stava ben attento a prendere piccolissime dosi di veleno, così il sistema immunitario deve essere stimolato da un agente poco aggressivo.
Come è fatto in pratica il vaccino e come agisce nei confronti dei virus? Il vaccino è un’infezione simulata e programmata, come l’addestramento dell’aquila prigioniera. La prima possibilità è inoculare solo pezzi del virus – cioè i bocconi sulla lepre di peluche – che abbiano però le caratteristiche idonee a essere identificati dal sistema immunitario e a stimolarne la risposta attraverso la produzione di anticorpi. Gli anticorpi sono molecole che servono a inibire l’azione di quello stesso virus da cui sono stati prelevati i pezzi, quando dovesse penetrare nuovamente, ma stavolta vivo e gagliardo, nell’organismo. Oltre che inibire l’azione del virus, gli anticorpi svolgono anche un altro compito, quello di rivelarne la presenza, attaccandosi alla sua superficie e comportandosi come bandierine di segnalazione. Bandierine di segnalazione riconosciute da cellule specializzate, che accorrono e divorano nello stesso boccone virus e bandierina. La seconda possibilità per preparare un vaccino è utilizzare virus inattivati, simili alla lepre morta trascinata dalla carrucola. Il virus è introdotto nell’organismo, è riconosciuto, come nel caso precedente lo erano i suoi pezzi, e produce una risposta immunitaria analoga.
La terza possibilità è usare un virus attenuato, magari perché è stato sottoposto a un trattamento termico, con ridotte capacità di infettare le cellule. Trovare un vaccino è un’operazione lunga e complessa, perché bisogna prima individuare il metodo adatto a produrlo, poi sperimentarlo su cavie, quindi su gruppi di volontari. Quando infine si è accertata la sua efficacia, e l’assenza di reazioni avverse importanti, si deve produrlo in grande quantità. Nel caso del Coronavirus che ha generato la pandemia, i laboratori di tutto il mondo si sono messi al lavoro, a volte in concorrenza, seguendo vie diverse, a volte unendo le forze. Ovunque la ricerca del vaccino è stata dichiarata prioritaria. Al Cnr, dove lavoro, il personale che aveva cominciato a occuparsi del Coronavirus ha avuto il permesso di accesso ai locali anche durante il lockdown, in quanto settore strategico.
Ricerche promettenti sono già in fase di sperimentazione su soggetti umani in molti paesi del mondo, tra cui Cina, Stati Uniti, Europa e Israele. È notizia di queste ore l’annuncio del professor Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale di Sanità e Consigliere del ministero della Salute, che il vaccino, frutto della collaborazione tra un’azienda di Pomezia e l’Università di Oxford, è in una fase di sviluppo avanzata. Ricciardi ritiene che nel giro di sei mesi circa, le prime dosi saranno disponibili per l’Italia e l’Europa. Armiamoci quindi di mascherine, ma anche di pazienza e di fiducia negli scienziati. Per il Coronavirus della pandemia è iniziato il conto alla rovescia. Come gli Ebrei sull’altra sponda del Mar Rosso, dobbiamo riuscire ad arrivare alla fine dell’anno indenni dal virus. Poi ci penseranno le onde del vaccino a travolgerlo e spazzarlo via.