La lettera di 150 toghe in difesa di Storari
Valanga sulla procura di Milano, dopo 30 anni sotto accusa il metodo Mani Pulite
Una valanga. È ormai una valanga quella che si sta abbattendo sulla Magistratopoli milanese, sul capo della procura Francesco Greco e il suo asse che pareva inattaccabile con il pg della Cassazione Giovanni Salvi e i vertici di Magistratura democratica, la corrente sindacale che sostenne trent’anni fa la roccaforte di Mani Pulite e i loro metodi che oggi sono sul banco degli imputati. Una piccola ricompensa per le tante vittime di quel sistema, e soprattutto per i 41 che proprio per quello si tolsero la vita. Una valanga che oggi porta le firme di 58 pm milanesi su 64, e poi gip e giudici di tribunale e corte d’appello, e l’intera procura di Busto Arsizio, fino a superare il numero di 150 toghe che, dietro le righe di una solidarietà al collega Paolo Storari che Salvi vuole cacciare da Milano e da qualunque procura, dicono “basta” alla Magistratopoli lombarda. Il pg della cassazione (e con lui il capo della procura di Milano) ritiene che i magistrati milanesi non siano sereni, se Storari rimane lì. Siamo molto sereni qui con lui, rispondono in coro i colleghi. Quasi dicendogli “stai sereno” tu.
Non è importante stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, per capire le ragioni di quel che sta succedendo. È stato il libro di Palamara e Sallusti a far rotolare il primo sassolino che diventerà valanga o è il caso Storari-Davigo con la maledizione del processo Eni a disvelare che ormai da tempo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si dice che “il re è nudo”? Nessuno pensava che un giovane sostituto fosse così importante, e probabilmente non lo è. Ma in tanti tra quelli più anziani negli uffici hanno la memoria lunga. E qualcuno sicuramente ricorderà le aspettative di chi avrebbe potuto diventare nel 2016 il capo della procura quando invece la scelta del Csm –quello in cui spopolava il sistema Palamara- era caduta su Francesco Greco, esponente di Magistratura democratica come gli altri candidati (a Milano finora è sempre andata così) ma soprattutto ex componente di quel gruppo che si arrogò il diritto di definirsi di Mani Pulite. Non è un caso che il leader dei giovani di procura che hanno steso il documento che, difendendo Storari, colpisce al cuore l’asse Salvi-Greco, si chiami Alberto Nobili e che sia, a quanto pare, il primo firmatario dello scritto di solidarietà al giovane pm che osò ribellarsi, pur con procedure sgrammaticate, al proprio capo.
Chi ha la memoria più che lunga, addirittura lunghissima, tanto da saper andare, senza errori, fino all’indietro di trent’anni, potrà constatare che il Metodo, il Sistema, di certi procuratori, quello criticato con fermezza dal tribunale che ha assolto i vertici Eni nonostante la procura avesse esercitato pressioni di ogni tipo per arrivare alla condanna, non sono mai cambiati. Sono stati inventati allora e vengono messi in pratica ancora. Quando il procuratore Borrelli diceva come non fosse vero che loro tenevano le persone in carcere per farle confessare, ma che li scarceravano solo dopo che avevano parlato. Quando colui che allora era un semplice sostituto, Francesco Greco, al collega romano che era anche stato suo mentore Francesco Misiani che gli contestava la costante violazione della competenza territoriale, rispondeva come non fosse importante quale procura facesse le inchieste, ma “chi” potesse permettersi di farle. Cioè loro, gli alfieri con le Mani Pulite.
Quel che è successo al processo Eni, e nei filoni complementari, ne è la plateale dimostrazione. Non è un caso che, proprio nei giorni scorsi, il procuratore Greco si sia rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria dalla collega e fedelissima Laura Pedio, che indagava insieme al collega Storari, su un filone parallelo rispetto al processo principale e che veniva chiamato del “falso complotto”. Anche senza entrare troppo nel merito, appare palese il fatto che la mentalità di allora si rispecchi nell’oggi: non è importante di chi è la competenza, ma “chi” è il predestinato a svolgere certe indagini. E Milano non dà le carte al procuratore di Brescia Francesco Prete, che è costretto a rivolgersi al governo.
Così la procura di Milano, già all’attenzione del ministero (che ha mandato gli ispettori), del Csm (che sta ascoltando tutti, e proprio ieri Fabio Tremolada, che ha presieduto il processo Eni) e dei pubblici ministeri di Brescia (che indagano sia su Storari e Davigo per la diffusione di atti segreti, che su De Pasquale e Spadaro perché avrebbero nascosto al processo Eni importanti atti a discarico degli imputati) è decisamente sul banco degli imputati.
Lo è per il metodo, e per l’arroganza. Come definire diversamente quel che è accaduto al processo Eni? Basta dare un’occhiata alle motivazioni della sentenza che ha assolto i vertici dell’azienda petrolifera per restare allibiti. Che i protagonisti dell’accusa si spendano per ottenere la condanna degli imputati è logico. Pur se si dovrebbe sempre ricordare che il pm è obbligato anche a portare in causa eventuali elementi a discarico. Se i due pm, come pare, non l’hanno fatto, nascondendo al processo una serie di prove che avrebbero dimostrato l’inattendibilità di un loro teste-accusatore, saranno sicuramente rinviati a giudizio dalla magistratura bresciana, competente a giudicare i colleghi milanesi.
Ma il fatto più inquietante è un altro, anche perché ha una coda che riguarda personalmente il procuratore capo Greco e l’aggiunto Pedio. A un certo punto del dibattimento Eni, i pubblici ministeri avevano tentato di far entrare nel processo un verbale dell’avvocato Piero Amara (quello che aveva parlato della famosa “Loggia Ungheria”) in cui si metteva in dubbio l’integrità del presidente del tribunale Fabio Tremolada, definito come uno “avvicinabile”. Un tipo di testimonianza, soprattutto se resa da un personaggio discutibile come Amara, che in genere dovrebbe prendere la strada del cestino e essere trattato come carta straccia. Invece no. I due pm De Pasquale e Spadaro ci hanno provato, pur non potendo ignorare che un atto di quel tipo avrebbe potuto portare il presidente all’astensione e il blocco dell’intero processo. Ma la cosa ancora più grave è il fatto che il procuratore Francesco Greco e la fidata Laura Pedio inviarono quel pezzo di carta straccia alla procura di Brescia. A tutela del presidente Tremolada? Certamente. Quando mai ci si fanno gli sgambetti tra colleghi? Soprattutto quando un processo molto “politico” e molto mediatico sta andando male per la procura?
Ora si vedrà se il Csm, se questo Csm che non ha avuto la forza di dare veri segnali di cambiamento dopo il “caso Palamara”, tenterà o meno di chiudere tutta la faccenda usando il pm Paolo Storari come capro espiatorio, come del resto ha chiesto il pg Giovanni Salvi, cacciandolo da Milano. Sarebbe un passo indietro, inaccettabile per la valanga delle firme che chiede il contrario. Ma se il procuratore della Cassazione, che forse ha a sua volta il problema di qualche cena di troppo e di qualche dichiarazione assolutoria nei confronti dei colleghi che si fanno raccomandare per fare carriera (ma non si chiama “traffico di influenze” se lo fa un politico?) da farsi perdonare, venisse sconfessato, dovrebbe dimettersi. E forse sarebbe ora di una svolta che rompesse anche la tradizione milanese quando a novembre Francesco Greco andrà in pensione.
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