La sensazione una volta usciti è quella di aver scoperto la strada verso una dimensione finora sconosciuta dell’arte. Non più uno sguardo frontale a un quadro, a un bozzetto, a un’immagine per sua stessa natura bidimensionale, bensì una vera e propria immersione all’interno dell’opera d’arte, a quel punto perfino capace d’accoglierti, abbracciarti, di farsi ammirare al suo interno, pezzo per pezzo.

Un’esperienza del tutto differente rispetto a una tradizionale visita a un museo, ancorché sia evidente a chiunque decida di intraprenderla la distanza che comunque passa tra l’essere di fronte all’originale oppure, ed è questo il caso, sentirsi parte attiva di un’esperienza che muove i suoi passi sì dai pezzi più famosi, ma che li reinterpreta in una chiave del tutto differente, meritevole di un approfondimento, ma per sua stessa definizione lontana dallo staccare un biglietto per accedere al più noto museo di Amsterdam.

“Van Gogh L’esperienza immersiva” già dal titolo spiega molto di quello che i visitatori si troveranno ad assaporare visitandola. Che il protagonista assoluto del percorso sia la produzione artistica di Vincent Van Gogh è il presupposto di partenza; che l’accesso non preveda di ammirare gli originali del pittore olandese è un fatto che non stupisce nessuno, specie perché ciò che si apre davanti agli occhi di chi ci si tuffa è tutt’altra cosa rispetto a una pinacoteca nel senso più conosciuto del vocabolo. Un’obiezione cara ai puristi, forse, peraltro facilmente sorpassabile una volta che, già all’esterno, sono i girasoli appesi tutt’intorno ad attrarre lo sguardo di chi aspetta il proprio turno. A Milano, Napoli e, in contemporanea in una quindicina di città differenti tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Corea del Sud e Singapore, l’idea che muove il progetto è la reinterpretazione dello stesso concetto di museo che siamo abituati a vivere.

Grazie alla tecnologia, infatti, Van Gogh è riletto partendo dalla narrazione di quella che è stata la sua vita, dei tormenti vissuti e dei luoghi che ne hanno caratterizzato l’esistenza. Il clou ovviamente lo offre la cosiddetta “stanza immersiva”, uno spazio di oltre mille metri quadrati che – grazie alle proiezioni delle opere sulle pareti e sul pavimento – fa sì che gli ospiti vivano un movimento altrimenti soltanto immaginabile. Seduti a terra, sdraiati sui tappeti oppure abbandonati nelle sdraio comunemente utilizzate in spiaggia, davanti agli occhi, ma anche sulla pelle, sui vestiti e sui corpi di chi è lì con noi passano schizzi e pennellate che hanno fatto la storia dell’arte, con i tratti della Notte Stellata o del Campo di grano con volo di corvi ad avvolgere i presenti, a quel punto non più semplici spettatori, ma parte integrante dell’esperienza. Le linee, infatti, fuoriescono dalle immagini piatte e si muovono, il treno corre veloce, il cipresso cambia di prospettiva e, così facendo, la percezione di chi l’assapora.

La riproduzione della Camera di Vincent ad Arles è fatta perché i telefonini inseriscano al suo interno i passanti; il Vestibolo di asilo al fianco della camera, in aggiunta, permette a chiunque di farsi immortalare nel suo bel mezzo, quasi si fosse davvero lì. Tecnologia, del resto, chiama tecnologia; il cellulare, in un contesto del genere, non soltanto serve per fermare gli attimi, ma anche per seguire, passo dopo passo, le spiegazioni di quanto si sta ammirando.
Tra pannelli, installazioni e racconti è relativamente semplice entrare a capofitto nella vita dell’artista morto nel 1890, un percorso rivolto non necessariamente a chi già ne sa qualcosa, ancorché sui più piccini debba in qualche modo essere accompagnato da genitori e nonni al seguito per favorirne la comprensione. Il concetto di divulgazione e di apertura alla curiosità dei più è una possibile chiave di lettura. Alla fine, a manifestarsi è il desiderio di intraprendere un viaggio aggiuntivo per conoscere ancor meglio Van Gogh.