Teorie al contrario nel libro del Generale
Vannacci, italiani bianchi da 8mila anni? Ma quando mai…!
A differenza di quel che sostiene il Generale Vannacci nel suo bestseller controverso, fu proprio quel melting pot culturale – con tutti i possibili colori – a incrementare la crescita numerica e l’espansione geografica dello Stivale.

“L’Appennino appariva coperto fin quasi sulle cime più alte da una folta foresta di faggi e aceri spesso misti con abeti bianchi: i primi due allargavano le chiome fino a 40 metri di altezza (come un edificio di 12 piani), superate solo da quelle più scure degli abeti. Nelle aree altitudinali più basse regnava la foresta mesofila con cerri, ornielli, aceri campestri, carpini, roverelle. I territori più prossimi al mare o sottoposti al suo influsso climatico, erano occupati dalla selva sempreverde con lecci alti anche 20-25 metri, sughere immani, in qualche luogo forse anche pini marittimi e d’Aleppo… Le specie classiche della macchia mediterranea (mirto, fillirea, corbezzolo, alaterno, erica) interessavano, anche con esemplari colossali, le fasce marginali. Le grandi paludi costiere e interne erano caratterizzate dalla foresta umida con farnie, frassini, pioppi, salici, ontani. I corsi d’acqua, che presentavano dimensioni, portate e regimi ben più stabili e superiori agli attuali apparivano spesso coperti dalle scure arcate della foresta ripariale a galleria che ne accompagnava il distendersi nelle pianure paludose e boscose”.
Beh, era proprio questa l’Italia primigenia di ottomila anni fa, ricostruita dal naturalista Fulco Pratesi. All’epoca ospitava all’incirca 60 italici, quelli che per il generale Roberto Vannacci erano “identificati con la pelle bianca”. Una balla spaziale, una sparata che può lisciare il pelo al senso comune razzista ma è del tutto priva di senso e di giustificazioni scientifiche.
La paleontologia umana fornisce un mare di ricostruzioni del processo evolutivo dai tempi di Leonardo da Vinci, fondatore della disciplina, e anche le ultime ricerche rilevano la nostra penisola come approdo di continue migrazioni, a partire dall’Africa, la terra madre della nostra specie Sapiens, e indicano come hanno contribuito a rafforzare la crescita demografica trasferendo conoscenze fondamentali per la sopravvivenza in quell’intrico di rischi, paure e trappole di ogni tipo, con la gestione dell’acqua e della produttività agricola, la caccia e la ricerca di ripari e rifugi per proteggersi accanto o dentro giganteschi alberi cavi, negli affossamenti del suolo, sotto grandi massi sporgenti, nelle prime abitazioni cavernicole in grotte sbarrate all’entrata da pelli stese e sorrette da armature di rami intrecciati.
Proteggevano l’acqua contenuta in qualche incavo di roccia, il prezioso fuoco il cui controllo favorì la migliore alimentazione e le difese da animali predatori e anche l’espansione. Questo inizio avventuroso è raccontato dai tanti nostri siti preistorici. Ma basterebbe rileggersi i resoconti di storici greci e latini come Erodoto, Ellanico di Lesbo, Anticlide, Livio, Plutarco, Seneca con le loro narrazioni delle rotte migratorie verso la penisola dall’Africa, dal Vicino Oriente – oggi la Turchia Asiatica, la Persia, la Siria, il Libano, Cipro, Israele, la Giordania, l’Iraq, i paesi della Penisola araba e l’Egitto -, dalla Mesopotamia, dalle isole greche.
Descrivono gruppi familiari, schiavi in fuga, eserciti sconfitti in guerre locali, sovrani e popolazioni bandite dalle loro città, gente in fuga da siccità o alluvioni o eruzioni e altre catastrofi, marinai in cerca di nuovi approdi, mercanti o anche esploratori di un vasto mondo che valeva la pena conoscere e colonizzare. Molti di loro non avevano nulla da perdere e nemmeno mete certe però, avvistata l’Italia che appariva come una invitante “foresta galleggiante” baciata dalla collocazione geografica, dal clima mite, dall’abbondanza di acque, facevano vela e rotta sulla penisola. Occupavano terre, se già popolate venivano accolti o si scontravano con le popolazioni stanziate, si sovrapponevano o venivano assorbiti o stabilirono forme di convivenza, ma per tanti di loro la seconda patria diventò man mano la prima, e irrobustirono la storia genetica dell’Italia trasferendo bagagli di esperienze dirette, e quanto sapevano o avevano contribuito a realizzare o visto realizzare nei luoghi di origine.
È indicativa la lettera scritta da Seneca a sua madre Elvia quando Claudio lo esiliò in Corsica, sembra un moderno trattato sulle migrazioni: “…han cambiato sede genti e popolazioni intere…L’Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po’ dappertutto; tutta questa costa dell’Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L’Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l’Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani…Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni…altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice…”.
Quello strepitoso melting pot culturale con tutti i possibili colori della pelle, incrementò la crescita numerica e l’espansione geografica. Iniziarono a ricavare spazi con estirpazione e abbattimenti di boscaglie, asciugando con drenaggi in pendenza qualche piccolo tratto di foresta pluviale costiera con i suoi monumentali lecci, sughere, farnie, pioppi bianchi, ontani, olmi e frassini. Delimitarono i campi agricoli della prima agricoltura e gli spazi per i villaggi favorendo la prima stanzialità con la nascita di piccole economie agricole.
I nuovi saperi giunti da lontano venivano messi in pratica per far fronte a fabbisogni alimentari crescenti con la prima produzione di cibo e l’introduzione della macina per ridurre in farina i chicchi dei cereali. Passarono poi a coltivazioni più intensive di grano e orzo selvatici, e al primo allevamento del bestiame domestico con cavalli, maiali, pecore e capre, e più tardi di bovini.
Fu una svolta determinante, alla quale seguì l’inizio della conservazione alimentare, uno dei più grandi salti nella storia iniziale che incentivava nuove modalità di vita, organizzazione sociale, economie, e anche nuovi conflitti.
L’Italia era la terra ideale per l’acqua, la fertilità dei suoli e il clima temperato e intorno al periodo indicato dal Generale Vannacci, iniziarono a piantare i primi impianti di cereali importati dai migranti da Oriente come frumento, orzo e avena, segala, miglio, viti, olivi, fichi.
Hanno ritrovato tracce soprattutto nelle valli fluviali della pianura padano-veneta, le piane del Friuli occidentale, i Colli Berici vicentini, i Monti Lessini nelle Prealpi venete così ricchi di minerali come ossidi di ferro, calce, potassio e fosforo adatti alle colture, gli originalissimi terrazzamenti liguri, le fasce della costa Toscana, i Monti Lepini alle falde dei vulcani laziali, sul Vesuvio, nel Cilento, sulla pianura pugliese tra Barletta, Lecce e Castrovillari, sulle piane della Calabria, in Sardegna in prossimità del mare, in Sicilia sui pendii collinari dell’Etna e nella fertilissima piana di Catania.
I giacimenti di basalto, quarzite e selce fornivano materia prima per forgiare asce e picconi, zappe e falcetti per le sistemazioni d’altura orizzontali, le arginature con le palificazioni di sostegno sui ripidi fianchi collinari e montuosi. Erano bianchi? Per nulla. Né loro né i loro discendenti. Erano semplicemente italici, il popolo più meticcio del pianeta.
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