Nel 2004 il più grande allargamento Ue
Vent’anni fa il più grande “allargamento” della storia dell’Ue, così l’Europa orientale diventa lo scudo contro Putin e le sue paranoie
L’operazione ebbe un importante impatto sulla geopolitica: oggi molti dei nuovi membri dell’Europa orientale sono anche membri della Nato e questo accresce la paranoia da accerchiamento di Vladimir Putin
Mercoledì 1° maggio non era soltanto la festa del lavoro, ma il 20° anniversario del più grande allargamento della storia dell’Unione europea. Nel 2004, infatti, l’ingresso di dieci nuovi paesi (Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Lettonia, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia), quasi tutti provenienti dall’Europa orientale, ha portato il numero degli Stati membri da 15 a 25.
Da un giorno all’altro, la popolazione della comunità europea è cresciuta di quasi 75 milioni di persone, diventando uno dei mercati più grandi del mondo. Un cambio rivoluzionario di cui ancora oggi viviamo le conseguenze – l’ultima purtroppo è l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – e per il quale sarebbe tempo di bilanci. Ma che, ça va sans dire, è passato quasi completamente in sordina nel dibattito pubblico italiano, impegnato su questioni decisamente risibili al confronto. Viceversa, sarebbe il caso di ricordare che quell’allargamento è stato un successo clamoroso. I paesi che hanno aderito all’Ue nel 2004 hanno goduto da allora di una crescita economica sostanziale.
Le economie di Polonia e Malta sono più che raddoppiate, mentre la Slovacchia è cresciuta dell’80%. Dall’allargamento del 2004, nell’UE sono sorti circa 26 milioni di posti di lavoro, sei milioni dei quali creati nei 10 nuovi paesi membri. L’invasione dell’“idraulico polacco” agitata dai conservatori sovranisti – ovvero lo spauracchio che la forza lavoro a basso costo proveniente dall’Europa orientale avrebbe sottratto opportunità ai nostri lavoratori alterando gli equilibri sociali – si è rivelata un fake.
“Alla fine, l’impatto cumulativo della migrazione sulla popolazione in età lavorativa nei vecchi Stati membri è stato contenuto, pari allo 0,37% tra il 2004 e il 2007”, ricordano Mirek Dušek e Andrew Caruana Galizia, due dirigenti del World Economic Forum.
Viceversa, con una crescita economica del’1,7 per cento nel 2009, la Polonia è stata il paese dell’Europa centro-orientale meno colpito dalla crisi economica di quegli anni e migliaia di tedeschi dell’est attraversarono il fiume Oder in cerca di un impiego. Il risultato è che, grazie anche all’allargamento del 2004, l’economia dell’Ue è cresciuta del 27% negli ultimi 20 anni, con evidenti vantaggi anche per i paesi che erano già membri. Per esempio, le esportazioni spagnole verso i 10 paesi sono raddoppiate, mentre il commercio italiano di beni con questi paesi è aumentato del 77%.
In meno di due decenni, il flusso interno di merci all’interno dell’Unione è cresciuto di oltre il 40%. Un mercato unico più ampio ha fatto dell’Ue un partner commerciale ancor più attraente, consentendoci di creare nuove opportunità all’estero. Dal 2004, il commercio europeo globale è cresciuto di 3mila miliardi di euro, raggiungendo i 5mila miliardi di euro nel 2023. L’allargamento, insomma, ha promosso la prosperità, rafforzato la democrazia e assicurato stabilità in tutta l’Unione: questo mese di campagna elettorale dovrebbe essere il momento opportuno per ricordarlo contro chi vede nell’integrazione europea l’origine di ogni male.
Ma la ricaduta più rilevante dell’allargamento del 2004 è geopolitica. Molti dei nuovi membri dell’Europa orientale sono anche membri della Nato. Un aspetto decisivo nella formazione della paranoia da accerchiamento di Vladimir Putin. Per il despota russo l’aspirazione dell’Ucraina a far parte dell’Unione avrebbe provocato un definitivo e letale ridimensionamento dell’influenza di Mosca completando a suo svantaggio il riordino degli equilibri globali successivi alla fine della Guerra Fredda. Ecco i motivi dell’invasione.
Così, sono stati proprio i paesi dell’Europa orientale a suonare l’allarme contro Mosca. Basti pensare al formidabile discorso del giugno 2022 della premier estone Kaja Kallas: “Se l’aggressione paga diventa un invito a usarla ancora domani, altrove”, aveva detto, conscia di quell’attitudine russa alla sopraffazione e al totalitarismo che il suo popolo ha subito per decenni.
Si pensi pure al ruolo della Polonia, sempre più protagonista delle politiche di difesa europea con un riarmo da record per fronteggiare il rischio di attacco del Cremlino contro i propri confini: il governo di Varsavia ha investito nell’ultimo anno quasi 5 miliardi di dollari per attrezzature militari provenienti dagli Usa e quasi 9 miliardi per lo stesso motivo in direzione della Corea del Sud.
L’obiettivo? Ottenere un numero totale di carri superiore a quelli di Francia, Germania e Italia sommati insieme. Sul fronte umanitario, quasi 1,7 milioni di rifugiati ucraini (su 4,1 mln) sono ospitati nei paesi dell’est che aderirono nel 2004, mentre gli hub logistici in Polonia, Slovacchia e Romania hanno contribuito a convogliare gli aiuti da tutta l’Unione.
Insomma, i fatti ci dicono che i paesi dell’Europa orientale, dal Baltico fino al Mediterraneo, sono destinati a svolgere un ruolo cruciale come barriera difensiva contro i conati espansionistici del tiranno russo. Certo, l’Ungheria di Viktor Orbán gioca ancora a fare il cavallo di Troia di Putin nell’Unione. Ma la Polonia di Donald Tusk dimostra che dal populismo sovranista ci si può liberare, proprio grazie all’integrazione europea. Un messaggio di fiducia per tutti i cittadini dell’Ue che si recheranno alle urne tra il 6 e il 9 giugno. In attesa del prossimo – e necessario – allargamento.
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