Nella storia di un Paese vi sono processi ed eventi che vanno conservati in un archivio comune, pur senza rinunciare – nelle opportune sedi – ad approfondimenti più compiuti. Che senso ha – in un momento come l’attuale, in cui un contesto geopolitico consolidato cambia un giorno dopo l’altro – dare corso a una polemica viscerale sul Manifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita”, elaborato nel 1941 da alcuni intellettuali, confinati dal regime fascista in un’isoletta del Tirreno? Se si pensa alla condizione dell’Europa nel momento in cui quelle pagine furono pensate e scritte, non si può dire che Spinelli, Rossi e Colorni avessero una visione del futuro, ma che fossero – è una definizione più pertinente – dei “visionari” perché nulla – se non l’ottimismo della volontà – li autorizzava a ritenere possibile un’Europa unita e federale come quella prefigurata nel documento.

Giorgia ha malinteso il giudizio storico

Infatti, a leggere con attenzione il Manifesto (dubito che lo abbiano fatto sia Giorgia Meloni sia il popolo festoso che si è radunato in piazza del Popolo a spese del Comune), vengono in evidenza che la premier ha malinteso il giudizio storico, mentre le opposizioni non ne hanno colto l’attualità. È scorretto – come ha fatto Meloni – inchiodare quel documento a un paio di concetti estrapolati da due o tre frasi scelte strumentalmente (magari segnalate da un collaboratore) per sostenere le proprie tesi politiche. Ma soprattutto le impedisce di cogliere la vera novità del Manifesto relativa ai tempi in cui fu scritto. Nel novero dei totalitarismi non c’è solo la Germania nazista, ma si intravede anche l’Urss che non viene assunta come modello di quel socialismo a cui è affidata la prospettiva della nuova Europa. Il giudizio sul comunismo non lascia margini di ambiguità (e non era facile nel 1941): “Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma, tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie — col predicare che la loro ‘vera’ rivoluzione è ancora da venire — costituiscono, nei momenti decisivi, un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre, la loro assoluta dipendenza dallo Stato russo, che li ha ripetutamente adoperati per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di svolgere alcuna politica con un minimo di continuità”. Ma la critica del Manifesto non si ferma qui. “La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”.

L’attualità del messaggio

Gli estensori del Manifesto non arrivarono, dunque, a riconoscere che non esistono libertà politiche in mancanza di libertà economiche, ma ci andarono vicino: “Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente (….) Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego”. Del medesimo tono: “Pensiamo cioè a una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e a una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc”. Le opposizioni – invece – sia in piazza che in Parlamento non sono state in grado o non hanno voluto cogliere l’attualità di quel messaggio per quanto riguarda la guerra in Ucraina e il Piano di riarmo europeo, limitandosi a sbandierare un ideale pacifista dell’Europa di Ventotene che sarebbe violato dalle politiche di Bruxelles. Anche in questo caso si riscontrano omissioni nella lettura e nella comprensione del Manifesto.

Lo strumento per soddisfare i propri bisogni

“Ogni popolo – è scritto – individuato dalle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo”. Tuttavia – prosegue il Manifesto – “nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli e consegnano ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli”. Tutto ciò premesso, da quale parte starebbero oggi quei padri dell’Europa?