Ha fatto benissimo la casa editrice Nutrimenti a ripubblicare “L’isola riflessa” di Fabrizia Ramondino (1998), la grande scrittrice napoletana purtroppo scomparsa in circostanze sfortunatissime: morì, colta da un malore dopo una nuotata nel Tirreno, vicino a Itri, nel 2008. Sì, ha fatto bene, Nutrimenti, perché questo breve romanzo parla di Ventotene, della Ramondino che va nell’isola per cercare di disintossicarsi nell’anima prima ancora che nel corpo – ma deve essere sempre così, è sempre un problema di anima – e la descrive come sapeva fare lei: con continui svolazzi storici, filosofici, estetici, a pennellate rapide, come un quadro di Pissarro.

E di Ventotene tanto si è parlato nelle scorse settimane, per lo più a sproposito e con cattiveria, inserendo l’isola-confino di grandi antifascisti nella polemica politica di giornata. E allora la lettura de “L’isola riflessa” è anche un benefico antidoto alle polemiche, perché ci ricorda anche questa dimensione del carcere, del confino, delle mense separate, quella ordinata dei comunisti e quella caotica degli anarchici, perché l’ideologia a quei tempi si trasferiva anche sul modo di approntare i miseri cibi e le forchette e i coltelli a disposizione: e vengono citati Spinelli, Colorni, Rossi, anche Sandro Pertini, che veniva soprannominato “l’elegantone” – la notte metteva i pantaloni piegati sotto il materasso per fargli prendere una parvenza di stiratura.

Ramondino, non a caso molto stimata da Elsa Morante e Natalia Ginzburg, è stata veramente una grande scrittrice nel senso proprio del saper maneggiare raffinato e pregnante le parole. Apriamo a caso: «Nelle poche botteghe aperte c’è tempo per scambiare due chiacchiere; nel gergo della comunità si riconoscono le regole di ogni piccolo clan familiare o amicale, tese a mantenersi sul fragile discrimine che separa l’invasione nel territorio dell’altro (…) Quanto a me, sono in vari modi intrusa, estranea tanto alla comunità isolana che a quella turistica estiva; e a ciò si aggiunge che sanno, perché lo vedono, che scrivo e che mormorano che scrivo proprio della loro isola. E temono forse che li derubi della propria immagine».

Come scrisse Goffredo Fofi, «Fabrizia Ramondino piange la fine di un mondo, o del mondo, e la fine dell’utopia». Quell’isola che fu “rousseauiana”, nel senso mitico della terra del buon selvaggio, non è più come la vedevano pirati, pescatori e antifascisti. Al massimo, è solo riflessa.