La Repubblica islamica dell’Iran è da anni un Paese dove la crisi economica e l’isolamento internazionale si uniscono a un sistema politico che si sente accerchiato e che aumenta la sua repressione. Dopo le proteste per la morte di Masha Amini, uccisa mentre era nelle mani della polizia morale, le autorità iraniane hanno mostrato un’apparente serenità, annunciando – dopo mesi di violenti scontri – la vittoria sulle proteste. Manifestazioni che gli Ayatollah hanno additato come frutto della regia dei nemici di sempre: Stati Uniti e Israele. E a tal proposito, in queste ore il ministero dell’Intelligence e i servizi dei Pasdaran hanno annunciato di avere smantellato una presunta rete che voleva organizzare rivolte supportate dal Dipartimento di Stato americano e alcune organizzazioni sempre Usa.
L’annuncio serve a Teheran per ostentare sicurezza, ma anche per mostrare alla propria opinione pubblica che il sistema riesce a colpire sul nascere ogni tentativo di rivolta. In effetti le autorità sono apparse molto più sicure rispetto al periodo tra il 2022 e l’inizio del 2023. Le manifestazioni che avevano incendiato l’Iran hanno avuto un fisiologico calo dopo mesi in cui il regime sembrava al limite del collasso tra malcontento interno e pressione internazionale. Ma quello che molti osservatori hanno segnalato è che questo non deve far credere che per la Repubblica islamica sia giunta una fase di pacificazione. Le divisioni interne al movimento di protesta hanno certamente avuto un peso rilevante, così come la sfiducia. Ma a pesare è stata soprattutto una repressione violenta e capillare.

La prova del fatto che in Iran la calma sia solo apparente la confermano le ultime notizie. Le organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno denunciato l’arresto dello zio di Masha Amini, Safa Aeli. A influire sull’arresto potrebbe essere l’avvicinamento della data dell’anniversario della morte della ragazza, che secondo la versione delle autorità sarebbe morta per una malattia congenita al cuore e non per essere stata colpita alla testa mentre era agli arresti. Un’altra tragica testimonianza è quella di Nazila Maroufian, giornalista che era stata imprigionata per avere intervistato il padre di Masha Amini e che, tornata in carcere per non avere indossato l’hijab, ha denunciato di essere stata stuprata iniziando uno sciopero della fame. “Rivelo questo abuso per me stessa e per tutte le donne che sono state oggetto di violenza fisica e abusi sessuali durante il loro arresto, nelle stazioni di polizia e nelle prigioni”, ha detto la giornalista in un audio fatto circolare su internet. Altre due giornaliste, Negin Bagheri ed Elnaz Mohammadi, sono state condannate a tre anni di reclusione, con la pena parzialmente sospesa, per una non precisata “cospirazione”. A fine agosto, una strana morte, sempre di una persona legata alle proteste per la studentessa uccisa. L’avvocato di Javad Rouhi – che era stato arrestato durante le rivolte e trasferito nell’ospedale Shahid Beheshti dalla prigione di Nowshahr – ha dato notizia della morte del suo assistito mentre le autorità hanno riferito che lo spostamento nel nosocomio sarebbe stato causato da un “attacco epilettico”.

Mentre dalla Repubblica islamica aumentano le grida di protesta, il pressing inizia a essere di nuovo rilevante anche sul piano internazionale. L’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, ha rassicurato che Bruxelles lavora “senza sosta” per far sì che sia rilasciato dalle autorità iraniane Johan Floderus, cittadino svedese che aveva lavorato per gli uffici dell’Unione europea e che è “detenuto illegalmente in Iran da 500 giorni”. “Voglio sottolineare che io personalmente e il mio team, a tutti i livelli, in stretta collaborazione con le autorità svedesi, che hanno la responsabilità diretta per la protezione consolare, e con la famiglia, abbiamo spinto le autorità iraniane a rilasciarlo, ogni volta che abbiamo avuto incontri diplomatici”, ha rassicurato Borrell a margine del Consiglio Sviluppo informale a Cadice, in Spagna.
Mentre dalla Francia, i media ricordano anche la detenzione di Cecile Kohler, arrestata a maggio dell’anno scorso insieme a Jacques Paris con l’accusa di spionaggio. Il pressing sulla condizione della popolazione si unisce al lavoro della diplomazia, dal momento che con l’Iran si gioca una partita enorme che riguarda tre grandi nodi della politica statunitense in Medio Oriente: la partnership strategica con la Cina, l’asse sempre più solido con la Russia e il programma nucleare iraniano. Per Washington, e in particolare per l’amministrazione Biden, è necessario risolvere il più velocemente possibile la questione dei rapporti con Teheran, e i media internazionali hanno più volte riferito del lavoro Usa per far sì che gli Ayatollah spezzino quantomeno la loro partnership militare con Mosca.

I droni iraniani hanno avuto – e continuano ad avere – un ruolo essenziale nel conflitto in Ucraina, ma al momento da Teheran non sono giunte rassicurazioni, in attesa che si sblocchi il negoziato sull’atomo. È quella la vera partita della Repubblica islamica, che adesso può fare anche affidamento sulla sempre più consolidata vicinanza di Pechino. La Cina di Xi Jinping ha benedetto l’accordo con l’Arabia Saudita affinché i due Paesi normalizzassero i rapporti. E questa mossa ha confermato la crescente leadership cinese in Asia ma anche la potenziale perdita di leve negoziali da parte dell’Occidente per convincere l’Iran a cambiare rotta.