L'intervista
Vertice Nato, Nicola Latorre: “L’alleanza non interverrà sull’Ucraina, ma i Paesi restano sovrani. L’esercito europeo è una necessità. E pesa l’incertezza delle elezioni USA”
Il docente di Storia delle Relazioni Internazionali alla Luiss di Roma reputa l’appuntamento «uno dei più difficili» degli ultimi anni. E rilancia la Difesa Ue, “irrinunciabile”: più autorevolezza ed efficienza, meno costi
Che cieli si prospettano per la difesa europea? Il vertice Nato riunito a Washington diventa l’occasione per fare un tagliando all’Occidente, ferito e smarrito, incapace di rispondere con forza all’aggressione russa nel cuore dell’Europa e succube ora della propaganda di Putin e ora di quella Propal, due lati della stessa medaglia (e della stessa guerra: quella ibrida). Ne abbiamo parlato con Nicola Latorre, docente di Storia delle Relazioni Internazionali alla Luiss di Roma, dal 2013 al 2018 è stato presidente della Commissione Difesa del Senato. Un’esperienza istituzionale, quella di Latorre, ma anche di rappresentatività industriale: dal 2020 al 2022 ha diretto l’Agenzia Industrie Difesa.
Iniziato il vertice Nato, il primo in una situazione di impasse per la Casa Bianca, incertezza in Europa, guerra in Ucraina e Medio Oriente. Che momento è per lo scenario della sicurezza internazionale?
«Un momento particolarmente complesso e gravido di incertezze. E questo rende il vertice appena iniziato uno dei più difficili tra quelli svolti negli ultimi anni».
Si continua ad associare la Nato alla guerra, quando sarebbe vero il contrario: la Nato garantisce la pace. Infatti in Ucraina e in Medio Oriente non c’è, e non c’è mai stata.
«Escludo che la Nato possa abbandonare il ruolo strettamente difensivo finora assunto a tutela dei paesi membri dell’Alleanza. Ma la natura e la portata delle sfide imporranno un adeguamento strategico e spero che almeno su tre questioni ci saranno delle risposte già da questo vertice. Innanzitutto un rafforzamento del supporto all’Ucraina. In secondo luogo un aumento delle responsabilità e del sostegno finanziario da parte di tutti i paesi membri alle spese della Nato. In terzo luogo proposte tese a perfezionare e accrescere la capacità difensiva sui nuovi domini dove si giocherà sempre di più la partita della sicurezza. Quello dello spazio e quello cyber. Su tutto il resto penso che la discussione si potrà fare meglio dopo le elezioni americane».
Alcuni paesi baltici, Polonia ed Estonia in testa, chiedono ai partner di autorizzare l’Ucraina a colpire in territorio russo. Forse inevitabile, essendo in conflitto. O dobbiamo chiedere all’aggredito di difendersi con una mano legata dietro alla schiena?
«La Nato continuerà a non intervenire nel conflitto in Ucraina ma i singoli paesi che supportano l’Ucraina e che hanno esclusiva sovranità sull’uso del materiale bellico fornito agli ucraini non potranno non autorizzare sempre in chiave difensiva il loro utilizzo per neutralizzare i bombardamenti contro le città ucraine e la popolazione civile anche in territorio russo a ridosso dei confini russo-ucraini. D’altro canto il bombardamento criminale di avantieri su Kiev è un chiaro segnale della volontà russa di rifiutare qualsiasi vera trattativa di pace».
A Washington si dice che quando la Casa Bianca è debole, il Pentagono è forte. È questo il caso?
«Non credo che siano questi i termini della questione. Ci sono certamente stati discussioni tra il Pentagono e la Casa Bianca com’è naturale tra approcci mossi da diverse angolazioni visuali. Semmai oggi ci sono sfide complesse e per alcuni aspetti inedite e pesa l’incertezza determinata dall’attesa dell’esito delle elezioni americane, aggravata dall’incognita sulla candidatura Biden. Penso in particolare alla iniziativa della Cina che si propone sempre più come paese leader nella costruzione di un fronte alternativo all’Occidente da un lato tenendo sempre più al guinzaglio la Russia e dall’altro sviluppando una strategia delle alleanze a geometrie variabile tra i paesi emergenti che – pur con regimi non autoritari – hanno in comune l’avversione a un ordine internazionale che identificano a egemonia americana».
L’Italia è tra i pochi paesi Nato che è ancora indietro sull’adeguamento al 2% delle spese militari. Siamo buoni produttori, ma pessimi contributori.
«Indipendentemente da chi vincerà le elezioni negli USA non potrà reggere la contribuzione americana alla Nato con un numero di militari e con finanziamenti quasi doppio rispetto a quello che spetterebbe in base alla percentuale di Pil. Sarà sempre più inderogabile il principio che vincola al 2% del Pil la spesa militare minima di ciascun paese dell’alleanza. E questo è giusto che riguardi anche il nostro paese».
Si parla spesso, e spesso a sproposito, di modello di eurodifesa. Di esercito comune europeo. In campagna elettorale hanno detto tutti di volerlo, anche a sinistra. Lo vogliono davvero?
«Purtroppo spesso si utilizza il discorso sulla difesa europea strumentalmente per sostenere posizioni anti Nato. Ma le due cose non sono affatto alternative. Io continuo a pensare che la Difesa europea è una necessità irrinunciabile e non è alternativa alla Nato. Tutt’altro, essa può rafforzare la Nato alla quale parteciperemmo come Europa e non come singole nazioni europee. E quindi con più autorevolezza e minori costi senza ridurre ma semmai aumentando l’efficienza».
Ci aiuta a tratteggiare un modello di esercito europeo? Serve una forza di intervento rapido, un corpo scelto, una cassa comune per il nucleare tattico?
«Un protagonismo europeo si rende sempre più necessario tanto dal punto di vista politico-diplomatico quanto da quello militare. Guardando a quello che sta accadendo proprio in questi giorni nelle istituzioni europee ci sono seri motivi di preoccupazione. La nascita dell’Esercito europeo può essere però solo l’approdo di un processo che coinciderà con la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Sarà quindi il traguardo finale mentre oggi dobbiamo concentrarci su alcuni indispensabili passaggi: il primo di carattere squisitamente politico è che senza una politica estera comune non può esserci difesa comune. Vi è poi un problema procedurale che ci si era illusi di risolvere con le “cooperazioni rafforzate” tra gruppi di paesi. Non è possibile continuare con il principio della unanimità per adottare decisioni anche nel campo della difesa. Da ultimo la collaborazione – peraltro già in atto su alcuni importanti programmi di investimento tra alcuni gruppi industriali nazionali nel settore militare – è molto importante, ma occorre una strategia industriale comune di medio lungo periodo decisa a livello europeo e supportata dai rispettivi governi. Inoltre quello della difesa europea deve tornare a essere un terreno di confronto con il Regno Unito anche se fuori dall’Unione. Che l’uscita del regno Unito dall’Ue avrebbe accelerato lo sviluppo della difesa europea si è rivelata una illusione».
Perché fatichiamo, culturalmente, a parlare di difesa e di sicurezza? Un retaggio cattocomunista novecentesco?
«Alla base della debolezza della cultura della Difesa nel nostro paese ci sono sicuramente motivi sia di natura storica che di natura culturale che hanno nutrito un pacifismo antimilitarista maturato però in contesti geopolitici molto diversi da quelli attuali. Ma ci sono anche i pacifisti a là carte. Ad esempio da costoro mi sarei aspettato dichiarazioni forti e una grande manifestazione dopo il massacro dei bambini ucraini. Oggi politica della difesa e politica estera sono due facce della stessa medaglia e adeguate politiche di investimento nel settore della difesa non producono di per sé guerra ma garantiscono sicurezza e danno autorevolezza per rendersi protagonisti di una politica di pace. Ma queste considerazioni meriterebbero una intervista a parte».
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