Vertice Ue, riflettori su rebus Balcani: obiettivo integrazione per allontanare Putin

Di fatto, il Consiglio europeo, che inizia oggi a Bruxelles, si è aperto già ieri sera, con il vertice Ue-Balcani occidentali e la cena dei 27 leader. È la prima uscita di Antonio Costa come Presidente del Consiglio Ue, ma anche l’ultimo atto della politica comunitaria del 2024. Una tre-giorni con un’agenda ricca. Lo ha confermato Giorgia Meloni, che prima di partire per la capitale belga, si è presentata al Senato per le consuete comunicazioni pre-vertice. Il dibattito si è poi tradotto nella dialettica, solita e spiccia, tra maggioranza e opposizione, ma vabbé.

Sebbene la portata principale sarà servita oggi, quando la Ue metterà la testa sulla guerra in Ucraina, ascoltando il presidente Zelensky, special guest del summit, ieri si è tornati a parlare di Balcani. Vietata la parola allargamento, forse per ragioni scaramantiche, ma le intenzioni di apertura e coesione portano a quello. Lo si legge nella lettera degli “Amici dei Balcani”, che il gruppo composto da Austria, Croazia, Repubblica Ceca, Grecia, Italia, Slovacchia e Slovenia ha inviato alla leader della diplomazia Ue, Kaja Kallas, proprio in vista del vertice. Nella missiva, si legge la necessità di un avanzamento della graduale integrazione nel mercato unico, l’intensificarsi degli scambi diplomatici informali e l’aumento della presenza delle istituzioni Ue nei Balcani occidentali.

Si vuole dar così seguito all’annuncio ufficiale, ad aprile, di voler inaugurare una rappresentanza permanente del Parlamento Ue nella regione. Dopo gli uffici già operativi a New York, Addis Abeba e Giacarta, Bruxelles intende insediarsi a Kiev. Questo impone di non lasciare scoperti i Balcani. Vuoi per la loro posizione geografica, vuoi per il loro tradizionale ruolo di cinghia di trasmissione tra noi, Europa, e Turchia, Mar Nero e quindi Russia. La stessa spiegazione sostiene la proposta, che si legge sempre nella lettera, di aprire i Gymnich meeting ai governi locali. A bussare alla porta degli incontri informali dei ministri degli esteri Ue, organizzati ogni sei mesi (Gymnich: dal nome del castello in Germania che li ospitò per la prima volta nel 1974) c’è già la Turchia. Non si può far entrare Ankara, la cui candidatura a diventare una nuova stella della bandiera europea entra ed esce dalla ghiacciaia, senza dar retta ad Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia. La loro adesione avrebbe il triplice effetto di ampliare la Ue – abbiamo detto che di allargamento non si può parlare – e creare un cuscinetto strategico con la Turchia e allontanare la Russia.

In questa visione, l’immigrazione si dimostra essere una variabile indipendente. La caduta di Assad in Siria ne ha riacceso la spia. Il prossimo allarme sarà quello del terrorismo. Kaja Kallas ha confermato di aver avviato il dialogo con Hts, il gruppo (jihadista?) ora al potere a Damasco. Per la tenuta delle frontiere, però, è intervenuta Ursula von der Leyen in prima persona. Sua è la lettera dell’altro ieri ai 27 governi in anticipazione al vertice. Gesto non esattamente da protocollo, visto che il Consiglio Ue è presieduto da Costa. Da questo giro di epistole, emerge la richiesta di Bruxelles di una maggiore coordinazione tra le cancellerie. In termini di principio, sembra chiusa l’era di von der Leyen che anteponeva il diritto di asilo alla tenuta delle frontiere. Oggi, con il Parlamento che pende a destra, si assiste a un’inversione a U.

L’obiettivo è migliorare il sistema di Dublino e – si legge nella lettera – “garantire una gestione più efficiente dei sistemi di accoglienza e rimpatri più efficienti”. All’atto pratico, ci si aspettano espulsioni, rimpatri, anche in paesi terzi, e frontiere orientali militarizzate. I Balcani occidentali sono il non Europa nel cuore d’Europa. È naturale, quindi, iniziare da lì. Tanto più che alla sicurezza si accompagnano gli interessi economici. Nello sviluppo del Corridoio Mediterraneo, il traffico di merci e persone, in longitudine ovest-est, dalla Penisola iberica fino a Kiev, trovano in Trieste un hub di interesse per chiunque, anche per i cinesi. Ecco perché l’Adriatico – mare italiano, come di tutti i paesi balcanici, utile anche per Austria e Ungheria – dev’essere un mare di pace e di libero scambio.

Obiettivi tutti irrinunciabili quanto fallaci. Perché i Balcani sono una terra di per sé difficile, dove la Russia c’è già, come anche è ospite di riguardo presso alcune cancellerie di paesi membri Ue. Le esperienze di Romania e Ungheria ci insegnano che non basta essere Europa per essere una democrazia. E che l’integrazione non è a tenuta stagna dalle influenze del Cremlino. Utile ricordarselo quando l’adesione di altri governi sarà completata. D’altra parte la Ue è una comunità di destino. Quindi, o ci si allarga o si salta.