Piano piano, come un veleno per topi, ci hanno ammazzato via Veneto a noi di Roma e a voi d’Italia. Via Veneto – andateci – è ormai una stupida strada di scorrimento. Chiudono tutti e e se ne vanno. Dolce vita? Ma quale vita. Qui è la morte. Prima era l’arteria della cultura, dello snobismo, della ricchezza, degli appuntamenti di una Roma estranea a quella antica e anche a quella palazzinara, perché era la nostra Saint Germain Des Prè, più di una Fifth Avenue perché abbiamo avuto soltanto buone librerie e pochi bei negozi di alta moda e caffè come The Doney dove si andava soltanto per un drink carissimo e malizioso, molto malizioso accettare un drink da Doney.

La presenza dell’ambasciata americana, installata dopo la guerra nel magnifico palazzo della Regina Madre portò una clientela di diplomatici eleganti che sapevano le lingue, vestivano dal sarto e mangiavano in piccoli gruppi esclusivi. Noi giornalisti di notte sciamavamo per andare a rendere omaggio a Moravia, mentre quelli del Mondo di Pannunzio complottavano più in là e poi quelli dell’Espresso e quelli del Borghese e noi ultimi e poverissimi cronisti dell’Avanti e di Paese Sera e dell’Unità e della Giustizia che venivano da via Nazionale a chiusura e risalivamo da vicolo della Guardiola il Corso e il Tritone per chiedere una doppia Moskovskaya con la falce e martello, solo perché ci faceva ridere quando gli americani ci osservavano allarmati. Il Cafè de Paris, in tutta onestà, venne dopo e si conquistò i suoi gradi, ma non faceva parte della prima via Veneto, ma di quella del rilancio. Noi snob incalliti trovavamo ignorante chiamare un caffè “De Paris” come se ai Deux Magots di Saint Germain avessero messo un “Caffè di Roma”. Parvenu, ma di buona volontà.

Ed ebbero ragione: la strada languiva, i diplomatici ebbero ordine di non stazionare troppo perché i locali pullulavano di piccole spie da aperitivo, ed era vero, specie i cecoslovacchi facevano la parte degli elegantoni e i russi del Mar Nero, come calabresi coi baffi impomatati e la giacca a scacchi. Loro solo on the rocks. Ma il Cafè de Paris attecchì piano piano e ce la fece e vinse: un po’ paninaro, un po’ domenicale coi pupi fra i piedi, con la sua grande struttura a vetri sul marciapiede, attirava giovani non esistenzialisti, chiamava un po’ di zoccole di terza fila e di magnaccia scaduti, ma pazienza: c’era movimento e secondo alcuni girava lo sniffo, per quel che valeva lo sniffo a quei tempi bui, tanto ormai era arrivato dappertutto da Capocotta in poi non si parlava che dello sniffo, roba da veri ricchi. Io ci portavo mia madre che era una poetessa da giardino ma grande e non volle mai pubblicare le sua grida di nostalgie per aver perso il papà adoratissimo che le fu ucciso quando a nove anni, in uno dei delitti più oscuri degli anni Venti romani, prese una revolverata alla milza.

Inutili le veglie fra i giornalisti al san Giacomo, tutto si era poi distillato in una sua passione per via Veneto dopo la guerra perché il suo papà, il nonno che non ho mai conosciuto, era anche bibliotecario della biblioteca degli Stati Uniti e secondo mia nonna quella signora Christina Thompson non gliela contava giusta. A mia madre piaceva andare a scrivere nel Cafè de Paris dove ti inondavano generosamente di cocktail troppo carichi di Martini rosso e di Campari. Via Veneto era peccaminosa, cinica, borsara nera, aristocratica, insidiosa, elegante, laica e pretesca, vedeva tutto e non sapeva niente, solo i camerieri parlavano col tassametro. Piano piano morirono tutti, scomparve Alberto Moravia con la sua tribù di adepti di cui lui non sentiva una parola, sordo com’era diventato e con le orecchie piene di peli, sparirono i mostri sacri, persino Scalfari e i suoi smisero di darsi appuntamento lì ogni sera e fu così che la strada fu lasciata ai borghesi con le carrozzine e le utilitarie, ma poche vestigia con abiti non sempre di prima scelta.

Eppure tutto il mondo piccolo e soave della grande strada aveva trovato un suo ecosistema. Finché di colpo con un’ordinanza, o quel che è, ammazzarono il Cafè de Paris con una bomba della taglia di Hiroshima, o una di quelle al neutrone che ammazzano gli esseri viventi e risparmiano le cose. Tutti morti. Scheletri. Polvere. Vetri rotti. Buio. The day after. Chiuso. Per sempre. Ma forse riapre. No, chiuso, abbiamo detto per sempre. Ma c’è il ricorso. Quale ricorso, ma non l’hai letto sul giornale?! Mafiosi. Sono della ‘ndrangheta. Tutti quei soldi, quei cocktail. ‘Ndrangheta, lo vuoi capire. Sono mafiosi a Roma, fanno il comodo loro. Aprono bar e ristoranti, sfornano pizze e intanto riciclano, hai capito com’è che funziona. Dio mio, signora mia, chi l’avrebbe mai immaginato. Ma allora forse qualcun altro lo riapre. No, ti ho detto di no. l’ordine è di impedire, chiudere. Spargiamo sale sulla memoria. Guarda: stanno smontando tutto, con la ruspa, neanche le tracce devono restare, capito? È finita, finita per sempre per questo caffè del cavolo e per tutti questi romani che si credevano di essere in una capitale come tutte le capitali, Londra e Parigi, Berlino e New York, che non è una capitale, d’accordo, ma è New York. Ma ce l’hanno anche loro l’aggravante mafiosa.

Anche Milano ha Ornella Vanoni che le canta tutte, quelle della mala: “Sentii come la vosa la sirena…” No, credo che noi siamo più avanti. Noi abbiamo le eccellenze, non dimenticare. Buonasera, eccellenza. È la stessa sorte che molti anni dopo, sotto la potestà della bimba ingrugnita Raggiosetta Raggi, tocca a Piazza Navona. Hanno fatto saltare la testa, la nostra piazza che per dicembre e fino a metà gennaio diventava Orlando, Disneyland, Las Vegas, con i fucili ad aria compresa ricaricati da signorine di dubbissima reputazione, tutte un po’ Saraghine di Fellini anche perché Federico fu lì che inventò la parola internazionale “paparazzi”, oggi usatissima quasi solo in America: la meravigliosa bolgia dei fotografi coi flash al fosforo, le canaglie dei media, i folletti di via Veneto che beccavano lo Sha con una sugar daddy sulle ginocchia. Le bancarelle esistevano dai tempi di Giuseppe Giachino Belli (“Che ce fanno a piazza Navona tutti sti libbri, sti libracci e sti libbrari? Che ve diceva stamatina er prete? Li libbri nun so’ robba da cristiani. Figli, pe’ carità, nu li leggete”). Anche per piazza Navona e i bancarellari fu trovata la mafia connection e via un pezzo dell’anima della città, chi se ne frega. Non potevano cambiare gli esercenti, no? Meglio il rogo della memoria delle generazioni, tanto uno vale uno cioè niente.

Via Veneto l’ha ammazzata la nostra magistratura, se preferite alcuni meravigliosi e dedicati magistrati i quali hanno tartufato la ‘ndrangheta. Qualche porcaio pare che si sia stato in quel caffè, ma non roba di mafia. Solo porcaio. Che non meritava il rogo, la terra bruciata cosparsa di sale. Questa di ammollare a Roma la patente di mafiosa è la fissa, la ragion d’essere di alcuni intrepidi cacciatori di dinosauri per i quali non basta che un omicidio sia un omicidio, un furto e una associazione per delinquere sia quel che è. No, per salire tutti i gradini del cursus honorum devi portare a casa il super orsacchiotto dell’organizzazione di stile mafioso, sennò non vali una minchia. Ce l’hai il teorema? Te l’hanno dato, il teorema? Ecco: e tu segui il teorema. Ricorda: stile mafioso. E noi sappiamo in una capitale della moda quanto sia difficile discutere di stile, come portare i baffi, come alzare il mento, come rivolgersi al cameriere, eventualmente come portare la berta, ovvero il ferro, che a Roma si chiamava anche la sciantosa, perché parlava facendo i buchi.

Roma ha prodotto la banda della Magliana, il gobbo del Quarticciolo, non ci siamo mai fatti guardare dietro quanto a specificità criminale, stile da grisbì più vicino ai francesi che ai napoletani o palermitani, sia detto con una punta di nazionalismo, noi romani, quanto a malavita, j’avemo sempre co rispetto parlando, rotto er culo a tutti, e j’avemo puro imparato a contà. Ma questi giovanotti sono fissati. E vogliono il 41 bis o tris, vogliono dei 41 e si deve dimostrare che c’è la mafia, non gli basta un portabagagli pieno di cadaveri, non gli basta un regolamento di conti che – modestamente – neanche a Chicago: no, devono strafare, stare in linea con quelli di Palermo e Caltanissetta. E così a quelli del Caffè de Paris, tanto hanno fatto, detto e scritto, che alla fine gli hanno ammollato tutte le aggravanti mafiose e con queste hanno celebrato il rito della distruzione totale.

Adesso salta fuori, ma guarda un po’ che sorpresa, che in tutta quella vicenda, per torbida che fosse, la mafia non c’entrava un piffero, nulla, neanche un’ombra. Noi – si potrebbe dire con un certo orgoglio – delinquiamo in proprio. Altrimenti lasciamo perdere. E così- che è che non è – i giudici della III Sezione penale della Corte d’Appello di Roma hanno fatto cadere l’aggravante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso, e poi tutti gli altri reati come nel domino sono caduti annullandosi a vicenda. Capite il significato legislativo delle nostre leggi antimafia? Si prende un mafioso nell’atto di delinquere e gli si dice: brutto porco, tu non soltanto hai praticato l’estorsione e hai commesso un omicidio, ma lo hai fatto in un ambiente mafioso e con uno stile caratteristico della mafia. Dunque, per farti capire che abbiamo capito, ti carichiamo di un bel fracco d’anni di galera in più per questa aggravante e facciamo terra bruciata, come a Cartagine.

Giusto, no? Secondo me no, perché i reati come le condanne dovrebbero essere uguali per tutti, ma ammettiamo che in un determinato momento storico, eccetera eccetera. Allora avviene uno dei miracoli di san Gennaro tipici della nostra repubblica: e cioè l’“aggravante” di associazione di stampo mafioso diventa un pupo a sé stante: emette le gambine, impara a camminare: è autonomo. Non è più un’aggravante, è un reato autonomo ed è colloso come quei giochi dei bambini che si tirano in faccia. Se te lo becchi, è per sempre. Ti metti in testa una coppola storta? Parli per enigmi mentre passi col rosso? Queste sono cose che già predispongono per una visione da ’ndranghetisti della Storia e vanno lette in senso hegeliano, da Feuerbach a Marx: la cosiddetta n’ndrangheta- weltanschauung di cui gemono le carceri è stata denudata. Che dite? Sotto non c’era niente? Questo – ohibò – lo vedremo (Dottore, dica lei: ma questo articolo non è che per caso in qualche modo costituisce vilipendio o presuppone… con più attenzione? Agli ordini, eccellenza, riferirò).

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.