Il reportage
Viaggio nell’Islam romano della Grande Moschea, tra riti e voglia di parlarsi alla ricerca di una lingua comune
Girare per la Grande Moschea fa girare la testa. Il sole del sabato di Roma fa brillare ogni angolo di una bellezza che toglie il fiato. Re Faisal d’Arabia la volle, Paolo Portoghesi la disegnò, con una miscela attenta di tratti orientali e colori romani, di cotto e travertino, di palme e cipressi, di campidoglio e foresta del Maghreb. Prima pietra nel 1984, fu inaugurata nel 1995. La cupola centrale è ispirata alla Hagia Sophia di Istanbul, e il minareto – la torre da cui il muezzin chiama i fedeli alla preghiera – è alto 47 metri. Spagna, Impero Ottomano, Persia, poi luci, ceramiche, mosaici. Un fasto sfavillante ma composto, che in ogni suo spazio sembra voler favorire il silenzio. Ma il gioco di contrasti non si limita certo all’esterno.
Il capogiro è nel cogliere il contrasto delle parole, la voglia inespressa di parlarsi, di capirsi. La guida è un professore pakistano che ama il mondo perché ti contagia e ti cambia ogni giorno. Accenna alla sua vita come sarebbe stata, un orizzonte limitato alle tribù vicine, e poi alla sua vita com’è davvero – dal 1989 in Italia – senza un soldo ma con mille sogni che ora hanno il volto di una moglie italiana e il continuo mischiarsi con persone, idee e religioni. Perché l’uomo è uomo quando comprende che la sua ricchezza è il melting pot, e che l’identità è quella che nasce dalla contaminazione degli altri e dei diversi. Lui, mediatore culturale per professione e vocazione, sa che la diversità è anche incomprensione. “Da noi in Pakistan, o in Arabia, il caldo è tale che si fa festa se piove”, dice. Lo affermava già Pirandello, un po’ arabo anche lui visto che gli arabi conquistarono la Sicilia già nell’827 d.C: come possiamo capirci se percepiamo le cose in modo spesso opposto? È difficile, ma ne vale la pena, e il viaggio nei luoghi dell’Islam romano lo conferma ad ogni passo.
“Quando fu costruita la Moschea, ai Parioli i cittadini temevano che avrebbero finito di dormire”, per gli echi delle preghiere che alle orecchie occidentali sembrano lamenti. All’edificazione hanno partecipato un gran numero di paesi islamici, sia ricchissimi sia poverissimi. “Noi pakistani forse ci mettemmo 5 euro, il Bangladesh 3”, è il sorridente commento della guida. Il padre politico della Moschea, manco a dirlo, fu Giulio Andreotti. “All’Italia servivano buoni rapporti per via del petrolio”, spiega il prof. E viene in mente l’asse Andreotti-Craxi, divisi su tutto ma non sulla consapevolezza che siamo un paese che vive di Mediterraneo, e se non compie le azioni giuste, di Mediterraneo può morire. Il racconto è attento soprattutto ai numeri e alle definizioni. Perché l’Occidente le sbaglia tutte. Mette insieme islamici e saraceni, mori e turchi, quando l’unico termine per unirli è “musulmani”, cioè fedeli che si sottomettono ad Allah. L’Occidente chiama “Maometto” il profeta Muhammad, solo perché non pronuncia la “a” aspirata. L’Occidente coloniale ha trasferito i suoi modelli, i costumi sociali e la democrazia, ma senza farli davvero assimilare ai nativi, e così, “quando gli inglesi e i francesi sono andati via, hanno fissato i confini dei paesi con un tratto di matita. E Iran e Iraq hanno combattuto 10 anni per una striscia di terra”. I musulmani italiani sono 2 milioni e mezzo, nel mondo 10 volte tanto.
Rispetto a cristiani, ebrei o agnostici vari, hanno due caratteristiche: sono molto più giovani (“nella Moschea ci sono tante scale, ma i figli portano in braccio i loro anziani”) e sono più legati ai loro riti. Che sono la Shahada (cioè la testimonianza di fede in Allah e in Muhammad), la Salat (le cinque preghiere quotidiane da compiere rivolti verso la Mecca), la Zakat (l’elemosina obbligatoria per i bisognosi), il Sawm (il digiuno durante il mese di Ramadan che va dall’alba al tramonto) e lo Hajj (il pellegrinaggio alla Mecca che ogni musulmano deve compiere almeno una volta nella vita). Nella sala grande della preghiera si entra dopo attente abluzioni in una sorta di lavatoio collettivo dotato di rubinetti, dove Portoghesi mise anche degli inutili lavandini: da occidentale, dimenticò che nei paesi arabi sono solo oggetti decorativi. Ci si deterge viso, mani, braccia, piedi e anche orecchie, perché il deserto le riempie di sabbia. A pregare si va senza scarpe, e le donne indossano un foulard che copre i capelli. Uomini e donne pregano separati, e l’Imam dirige, ma il fulcro è sempre e solo il sud est della Mecca. “Allah è luce”, quindi i 25 lampadari sono superflui. Un pulmino parte da Piazza del Popolo per portare qui i fedeli, che il venerdì sono migliaia.
Ma la nostra guida sa bene che non sono Shahada o Zakat a far discutere. Anzi, a far tremare. Sa che è la Sharia, la legge islamica che deriva dal Corano e dagli Hadith (i detti e i fatti del Profeta). Ed è qui che nella Grande Moschea esplode il più grande dolore dei nostri tempi, l’equivoco che dilania i rapporti fra Stati e persone. Il prof sembra con gli occhi tornare al sogno del suo villaggio di bambino, e poi all’incanto della Siria o dell’Iran com’erano prima che alcune fazioni li rendessero schiavi. Sembra farsi portavoce di milioni di persone che credono in una fede e non nel sangue dell’11 settembre, nel terrorismo di Al Qaeda, Houthi, Hezbollah o Hamas, negli sciiti che mai hanno governato e ora dettano le loro orribili regole agli iraniani, nei talebani dell’Afghanistan e neppure nel fondamentalismo dei wahabiti che hanno in mano l’Arabia saudita. Il dramma di non capirsi. “Noi abbiamo avuto gli imperi che erano insieme Stato e religione. Noi non abbiamo la vostra piramide, Papa, cardinali, vescovi. Noi abbiamo arabo, persiano e urdu come lingue. Noi abbiamo accolto sempre tutti, da noi gli ebrei non erano perseguitati come in Europa. Noi abbiamo influenzato moltissime vostre parole e non solo i numeri”.
I normanni integrarono la cultura musulmana in quella europea. Poi i secoli delle Crociate, e Maometto spedito all’Inferno da Dante Alighieri. Nei nostri tempi, la decisione Onu del 1948 su Israele, e gli anni delle guerre arabo-israeliane, fredde e calde. Poi arrivò la rivoluzione degli ayatollah. E Sabra e Chatila, e l’Intifada. E gli anni ’90 sprecati a celebrare una caduta del Muro che l’Occidente non seppe tramutare in leadership di pace. Poi l’11 settembre 2001. Da allora tutto è cambiato. Da allora “Islam”, per una parte del mondo, significa solo intolleranza e fanatismo, repressione delle donne e del dissenso, violenza terroristica. “Si sono arrogati il diritto di parlare in nome di Allah e decidere come si applica la Sharia. Not in my name”, dice il professore. E ora il suo sorriso è impregnato di dolore, perché anche lui non sa trovare un perché. “Not in my name”, ripete, mentre alcuni visitatori chiedono come fare per iscriversi ai corsi di arabo. Una lingua comune si dovrà trovare, prima che il mondo si disintegri sul grande dolore, sul grande equivoco.
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