Una città del liberty e della libertà
Viareggio, la città dove l’amore si fa anche alla luce del sole: è la Mykonos italiana, la San Francisco che accoglie tutti
In questa striscia di terra ci venivano già i bisnonni. Con la Lancia coupé. E prima ancora D’Annunzio con fanatismo futurista, come scriveva Battiato. Nudo nelle pinete, che dopo la pioggia soltanto lui sapeva descrivere. Perché Viareggio è la città dell’amore. Non solo per D’Annunzio, ma anche per Puccini, che portava le donne nella sua villa, oggi nella piazza a lui intitolata o a Torre del Lago, per scrivere romanze, ovviamente d’amore. E l’amore sulla spiaggia a Viareggio ce l’abbiamo fatto in molti. Perché è impossibile sfuggire alla sua follia, anche oggi che la spiaggia è illuminata di notte. Ma illuminatela pure! A Viareggio, l’amore, si fa anche alla luce del sole, e si fa in tutti i modi, lì accanto, in quel baccanale orgiastico che è diventata Torre del Lago, dove imprenditori intelligenti e anche un po’ visionari decisero trent’anni fa – non adesso che sarebbe stato facile – di investire sulla diversità e ne fecero la Mykonos italiana, la San Francisco che accoglie tutti e a tutti trova una collocazione. Negli anni ottanta ne fecero un’isola del peccato quando si era meno fluidi, il politicamente corretto era ancora lontano e perfino nella rossa e progressista Toscana il diverso era “buco” e se andava proprio bene lo si tollerava.
Perché Viareggio è una città con tutte le contraddizioni di una città. Non solo un luogo vacanziero, di relax o divertimento, ma un agglomerato urbano e una comunità fatta di disparità tra ricchi e poveri, tra belli e brutti, dove ci sono le spiagge più pulite dell’universo ma anche ferite che non si rimargineranno mai, come quelle squarciate dalla strage ferroviaria del giugno 2009, con 32 vittime e oltre cento feriti. Uno spartiacque per quella comunità, un 11 settembre vissuto una sera di fine giugno perché tutti si ricorderanno per sempre di quella notte, di dov’erano e del momento che quel boato e la luce accecante hanno tranciato in due, in un prima e un dopo, la vita di Viareggio.
Una città di contraddizioni come non può non averne un luogo che dà sul mare ma dal mare vede la maestosità delle Alpi Apuane, una città che è chiamata “la perla del Tirreno” quando invece si tuffa nel Mar Ligure, una città dove soffiano nel vento le battute più fulminanti, dove si trova la pizza al taglio più buona del mondo, che solo a nominarla l’odore del pomodoro e della mozzarella e delle acciughe invadono una stanza a qualunque latitudine.
Una città con un’anima. Assai di più della più blasonata Forte dei Marmi che sta lì a dieci chilometri, che in tutta la sua augusta bellezza è diventata la nostra Montecarlo tra milanesi e russi, bella figurarsi, ma la vita è un’altra cosa. Una città, Viareggio, del liberty e della libertà. La città della staffetta partigiana Vera Vassalle, medaglia d’oro al valor militare. Una città ribelle contro chiunque, nata da un ratto perché i confinati lì, carcerati e poco di buoni si trovarono tutti uomini e decisero di addentrarsi all’interno superando paludi per trovare compagnia femminile. Gente strana, quasi una razza unica in una Toscana che non può essere omogenea si sa, ma forse lì si esagera. Una città anarchica e solidale, che si fa per tre giorni repubblica negli anni ‘20, dopo una partita di calcio finita in tragica rissa con l’odiata compagine della Lucchese e in successiva, incontenibile rivolta placata solo dalla Regia Marina.
Una città dove alla fine degli anni ‘80, in epoca gorbacioviana, non certo durante i fatti d’Ungheria, ho sentito un militante in una sezione del Pci affermare con orgoglio – infischiandosene del greco antico ma restando fedele alle metafore marinare: “io non sono filo-sovietico, sono fune-sovietico!”.
Una città di porto, di maestri d’ascia e di calafati, di quelli che sanno fare le macchine per attraversare il mare, perché di mare vivono, e dei nobili cugini della nobile città di Lucca se ne burlano e ne trascinano a galla la tirchieria ed il braccino corto, che loro, da viareggini, non conoscono. Perché domani chi sa che succede. E dunque sia carnevale, una festa dove tutto si rovescia per restare uguale, dove si prendono in giro l’arrogante e il prepotente non per tornare ad adularlo il giorno dopo ma per poterlo meglio prendere, il giorno dopo, ancor di più per le mele. Un carnevale che tra frizzi, lazzi e balli fa sfilare lungo i viali la sapienza artigiana dei suoi carristi, perché anche la burla, a Viareggio, è inzuppata di cultura. La cultura del Premio letterario che porta il suo nome (insieme a quello di Leonida Rèpaci, suo fondatore), la cultura di una città che ha dato i natali allo scrittore Mario Tobino, e che Tobino chiama “Medusa” con potente efficacia o che ha visto nascere Lorenzo Viani, pittore espressionista e novelliere. Una città di sport con l’allenatore campione del mondo viareggino fino al midollo che comincia a tirare i primi calci nella Stella Rossa e come altro avrebbe potuto chiamarsi quella squadra? Di cinema, con l’attrice più sensuale del nostro cinema nata lì e con Monicelli che non c’era nato ma che amava così tanto Viareggio da dire in ogni dove che era nato proprio in quella città che per genio e caratteristiche era veramente la sua.
Lo so, rischio di lasciarmi trasportare dall’amore quando nomino Viareggio, sento di farlo come i francesi nominano la Francia. Che quando un francese nomina la sua nazione c’è sempre un po’ d’amore superiore rispetto alla volta precedente. A me capita di farlo solo col nome di mia figlia, di mia moglie e, appunto, di Viareggio. Sarà per questa doppia “G” che pronuncio sempre con maggiore commozione, la stessa lettera con la quale iniziano i nomi delle mie due donne, e la stessa doppia lettera che si fa sigla, GG, e che forse – ma forse ancor di più per assonanza libertaria – ha portato in questa città il Premio Giorgio Gaber.
O chissà? Sarà perché quest’anno, dopo quasi mezzo secolo, nomino Viareggio nella prima estate che non andrò a trovarla. Ho deciso di staccarmi da lei. Per magari tornarci tra dieci anni e restarci a vivere e arrendermi finalmente al fatto che è lei, Viareggio, la mia città.
Perché a volte per troppo amore si può anche fuggire.
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