Il caso
Vietnam, condannati a morte per aver difeso la propria terra
Lo scorso 9 marzo, una Corte di Appello di Hanoi ha confermato le condanne di sei attivisti, comprese quelle a morte di Le Dinh Chuc e Le Dinh Cong, in relazione agli scontri avvenuti tra la polizia e gli abitanti del villaggio di Dong Tam. Nel gennaio del 2020, circa 3.000 poliziotti avevano fatto irruzione all’alba in questo paesino a una quarantina di chilometri a sud della capitale per porre fine alla resistenza che i contadini opponevano all’esproprio dei loro terreni. Nello scontro avevano perso la vita tre poliziotti e l’anziano del villaggio, Le Dinh Kinh, colpito dalle forze dell’ordine. Kinh non aveva mai parlato con odio del governo o del Partito Comunista, di cui è stato anche funzionario. Aveva però promesso che gli abitanti del villaggio avrebbero “combattuto fino alla fine” per la terra che consideravano loro.
Il caso ha scosso il Paese, e il Governo, attraverso i media di stato, si è affrettato a dipingere questo uomo come un rivoltoso e un terrorista. Stessa sorte è toccata agli abitanti del villaggio. I poliziotti morti invece sono stati elevati a martiri. Le notizie degli scontri diffuse sui social media sono state inondate da commenti filo-governativi, mentre il Governo ha chiesto che video, articoli e commenti che criticavano l’operazione di polizia venissero rimossi. Kinh aveva 84 anni ed era il papà Chuc e Cong, i due condannati a morte. Nella Repubblica Socialista del Vietnam la terra appartiene allo Stato, però i terreni vengono dati in concessione a contadini e privati. La sottrazione dei terreni, vuoi per fini militari, come nel caso di Dong Tam, dove si vuole costruire un aeroporto, vuoi per fini industriali, è fonte di speculazioni edilizie milionarie nel Paese che conosce una fase di forte espansione economica dopo l’apertura del mercato verso l’esterno. A guadagnarci però sono autorità e grandi imprese.
A perderci sono i contadini. In migliaia oramai affrontano controversie sulla terra in tutto il Vietnam, alcuni ridotti senza un tetto o a vivere in condizioni miserabili, passando le giornate a bussare alle porte di enti governativi, con documenti comprovanti titoli sulla terra nella loro disponibilità, sperando che il loro caso venga considerato. Altri faticano ad andare avanti con un compenso che, a metro quadrato, è appena sufficiente per comprare una ciotola di spaghetti. C’è anche chi si è tolto la vita per questo. Le Dinh Chuc e Le Dinh Cong hanno perso la terra, hanno perso il padre e ora rischiano di perdere anche la vita tramite iniezione letale, il modo più “dolce” e “civile” di esecuzione che nel 2011 ha sostituito il plotone di esecuzione.
Chuc e Cong non hanno però perso l’amore per la verità e per la giustizia. Il 26 marzo, Nguyen Thi Duyen, nuora di Cong e nipote di Chuc, ha fatto loro visita nella centrale di detenzione del distretto di polizia n. 2 di Hanoi. Con lei c’era anche la mamma dei due condannati a morte, Du Thi Thanh, che avendo dimenticato il documento di identità non è stata fatta entrare subito ma solo dopo che le visite con gli altri familiari erano terminate e solo per incontrare uno dei due figli. I due fratelli condannati a morte hanno raccontato che gli agenti penitenziari li hanno esortati più volte a rivolgere una richiesta di amnistia al Presidente Nguyen Phú Trong. Hanno però declinato l’invito. «Lo zio Chuc ha detto che la nostra famiglia non deve piangere né addolorarsi perché lui e mio suocero affermeranno la loro innocenza fino alla fine», ha riferito la giovane donna dopo il colloquio. «Nessuno della famiglia, come nessuno degli abitanti di Dong Tam ha ucciso qualcuno», ha detto invece Cong ritenendo che la richiesta di amnistia equivarrebbe a un’ammissione di responsabilità. «Se avessi effettivamente ucciso qualcuno, sarei stato ossessionato dai sensi di colpa quando mi hanno tenuto in isolamento in prigione, mentre non sono stato affatto turbato da questo tipo di sentimenti.”
Chong e Chuc restano così in carcere. Da innocenti, si tengono la loro condanna e cercano di dargli un senso. Lo dobbiamo trovare e forse dare anche noi a questa incredibile vicenda. Il benessere in Vietnam non può consistere nella crescita del PIL e nell’esproprio dei terreni ai poveri. La civiltà del Paese non si misura dal passaggio dal plotone di esecuzione all’iniezione letale. Il Governo italiano, l’Unione Europea, il mondo libero che ha a cuore la proprietà privata e ha abolito la pena di morte alzi la voce per la vita e la libertà di Chuc e Cong. Per il rispetto dei diritti umani in Vietnam.
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