Centoquattro donne uccise nel 2022 perché donne. E ancora il drammatico conto non è finito. Sono anni che facciamo fatica a leggere e a riportare questi numeri: dietro ogni numero, una storia. Spesso la storia di una donna che poteva essere salvata con la prevenzione. E invece si continua a perdere tempo puntando tutto sulla punizione o sull’intervento quando la violenza si è già consumata in maniera eclatante, quando spesso c’è poco da fare se non constatare l’ennesima vita spezzata. In questa sequela di codici rosa, rossi, etc ora si aggiunge anche l’ennesima commissione d’inchiesta. Ieri è stata approvata al senato l’istituzione di una commissione d’inchiesta bicamerale.
Prima esisteva solo a Palazzo Madama, ora viene estesa ai due rami del Parlamento. Applausi, emozione in sala, e poi? Ma davvero c’era bisogno di creare l’ennesimo luogo dove studiare quello che è già evidente? Il problema non è capire che cosa succede ma aprire gli occhi per fare quello che deve essere fatto, e anche in fretta. Sicuramente nella prevenzione un ruolo fondamentale lo hanno i centri antiviolenza. Non tutti. ma quelli che hanno come faro la libertà e i diritti delle donne. Ce ne sono alcuni che tentano di convincere le donne anche a tornare a casa, a perdonare i mariti. Ma poi ci sono tutti gli altri, i centri della rete Dire per esempio, che vedono protagoniste le donne, le volontarie, quelle femministe che ogni giorno si battono contro questa piaga. Invece che fare l’ennesima commissione d’inchiesta, basterebbe scommettere sui normali lavori parlamentari per stabilire le priorità, basterebbe fare un salto nei centri, prendere qualche appunto e vedere come si fa di tutto per salvare la vita delle donne oggetto di violenza e come poi si faccia di tutto per dare loro un futuro, una casa, un lavoro, una nuova vita.
Per fare questo servono competenza, cultura, saper fare rete, esperienza. Servono anche tanti soldi per far sì che davvero chi denuncia poi sia in grado di stare al sicuro e di essere autonoma. Invece si continua a far finta di nulla, si continua a ignorare il grido dei centri anti violenza, il grido di chi è impegnata in prima linea. Questo è quello che andrebbe fatto urgentemente. Che andava fatto già ieri, già l’altro ieri. Lo abbiamo detto troppe volte per non essere infastidite da questo silenzio, da istituzioni che continuano a ignorare il vero problema e la vera soluzione. Ma c’è anche un’altra scommessa che va portata avanti, quella più difficile: cambiare la cultura del nostro Paese mettendo in discussione proprio la famiglia tradizionale, i rapporti che questa definisce e come li definisce. Ma proprio la famiglia tradizionale oggi torna di moda, centro ideologico del governo Meloni. Nucleo propulsivo di una negazione dei diritti.
Vi ricordate le polemiche sul Ddl Zan? Beh, andrebbe riletto e rilanciato. Perché lì c’è la chiave di tutto: l’educazione e il riconoscimento della libertà di essere quello che si vuole, fuori da schemi identitari che la destra invece tenta in tutti i modi di promuovere. Per questo motivo è importante la manifestazione di sabato organizzata da Non una di meno. Perché non è solo femminista. È transfemminista: è il riconoscimento di tutte le soggettività, di tutte le contraddizioni che attraversano la società. È una manifestazione segnata dal conflitto, dalla richiesta di un cambiamento radicale: la violenza contro le donne, i femminicidi, non si contrastano con piccoli aggiustamenti, con commissioni d’inchiesta, con escamotage.