Sapevamo cosa era accaduto a Giulia Tramontano e dopo di lei a Cettina De Bormida, Floriana Floris, Anna Longo, Maria Brigida Pisacane, Pierpaola Romano, conosciamo le ragioni della catena che non si spezza. Capita di pensare che le parole non ci siano più, che la logica nichilista e antiumana dei femminicidi segni un punto di non ritorno. Sappiamo invece che le parole vanno trovate; servono a salvare i fatti, ricostruire una storia, cambiare un senso comune ancora complice e scrivere leggi efficaci. Servono, però, parole nuove: se la violenza contro le donne è un fenomeno antico i femminicidi di questo tempo – diversi ma uguali – lo sono meno.

La rivoluzione delle donne è stata la sola a non fallire nel Novecento, ha scritto il grande storico Eric Hobsbown. Verissimo: il processo però non è stato pacifico e nemmeno indolore. Le donne hanno conquistato libertà, hanno abbattuto il confine tra pubblico e privato e la rigida distinzione dei ruoli che li separava. Siamo abituati, però, a puntare lo sguardo sul primo dei due piani – la lotta alle discriminazioni, l’acquisizione dei diritti, le diseguaglianze economiche – e a trascurare il secondo – le relazioni, la sessualità, gli affetti, la cura e la crescita dei figli. Le culture politiche tradizionali hanno categorie che non vedono o faticano a mettere a fuoco quest’ordine di questioni: non hanno linguaggi adeguati e tendono a riportarli dentro schemi consueti. Per capire la violenza occorre invece guardare qui: gli uomini che colpiscono le donne non accettano la libertà dei loro “no, è finita”. Chi uccide – o prova ad uccidere, o tira l’acido – non tollera di doversi misurare con rapporti paritari: Impagnatiello non accettava che Tramontano volesse chiudere con lui e crescere il bambino, Carpineti rifiutava la decisione di Romano.

Non si tratta di questioni private, andrebbe scritto a lettere cubitali: la guerra contro le donne è una questione politica e così va trattata. Se lo avessimo capito non saremmo alle prese con una narrazione tossica, dove si scava nella vita delle donne fino alla morbosità, come se la ragione della loro fine fosse lì. Non lo è: accanirsi non solo porta al venir meno di ogni rispetto ma soprattutto copre le cause reali, il mancato riconoscimento de jure e de facto della libertà delle donne; lo spiega con chiarezza la Convenzione d’Istanbul, il trattato europeo che ha rivoluzionato il contrasto alla violenza spingendola fuori dalle mura domestiche. Gli studenti si sorprendono quanto spiego loro che è stata necessaria una carta ad hoc nel 2011 per dichiarare la violenza contro le donne lesione dei diritti umani e portare gli Stati membri ad attivarsi per contrastarla, o quando ricordo che in Italia il delitto d’onore viene cancellato solo nel 1981. Considero questo racconto parte del lavoro culturale necessario, serve a ricapitolare le tappe di un paese che fa i conti con la libertà delle donne dove non era ammessa e dove ancora si fatica ad ammetterla.

La ratifica della Convenzione (2013) – frutto del lavoro decennale di organizzazioni internazionali, istituzioni e Terzo settore – mette in moto nel nostro paese un processo di riforme articolato e innovativo. Gli assi della strategia sono tre: prevenzione, protezione e punizione; superando i riflessi di vecchie culture volte a far giocare questi piani l’uno contro l’altro, il trattato afferma che l’efficacia delle misure è legata, al contrario, alla loro compresenza. La linea della Convenzione ha ispirato le strategie più importanti dell’ultimo decennio: dalle norme sulla violenza domestica – la 119, che istituisce il Piano Antiviolenza e l’Osservatorio – alla legge sugli orfani di femminicidio, passando per la presa in carico nei Pronto Soccorso e il Microcredito di Libertà; e ancora: le indagini della “Commissione femminicidio”, le misure contro i matrimoni forzati e il Revenge porn.

A questi stessi principi erano ispirate le misure presentate dal Governo Draghi – Ddl Bonetti – rimaste inspiegabilmente ferme per molti mesi. Questa, a mio avviso, è la strada lungo la quale occorre proseguire, in modo stabile, veloce e il più possibile condiviso. Il Governo ha presentato un pacchetto di norme – che riprende, in parte, le proposte avanzate dal Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul terreno penale –. Lo scopo è garantire tempestività all’azione, ridurre i tempi dei procedimenti, rafforzare le misure cautelari, promuovere la specializzazione nella magistratura. L’auspicio è che il Parlamento discuta, integri e licenzi il provvedimento in tempi rapidi, consapevole dell’importanza e della delicatezza della materia, che il lavoro di contrasto prosegua anche su altri versanti: sostegno stabile ai CAV e alle case rifugio, formazione di tutte le figure coinvolte – magistratura, polizia, operatori sanitari –, campagne di prevenzione e informazione. In una parola, se vogliamo che i numeri cambino, che le donne denuncino e che la violenza esca dalle case, occorre che lo Stato mostri con chiarezza da che parte sta.

Fabrizia Giuliani

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